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La sera in cui a un concerto degli Who c’è stata una mini-reunion degli Aerosmith

E a vederli c’era gente che sorseggiava vini da 1000 dollari. Il racconto della data del tour d’addio all’Hollywood Bowl aperta dal Joe Perry Project. «Non ci sarà una prossima volta»

Foto: Randall Michelson/Live Nation-Hewitt Silva

La tappa di Los Angeles del tour d’addio nordamericano degli Who aveva diverse attrattive: il saluto a una città che li ha sempre accolti a braccia aperte, una venue suggestiva come l’Hollywood Bowl (in cui si sono esibiti innumerevoli volte, a partire dalla prima data da queste parti, il 19 novembre 1967) e una support band di lusso come il Joe Perry Project, che, oltre al chitarrista degli Aerosmith, comprende Chris Robinson dei Black Crowes alla voce, Dean DeLeo degli Stone Temple Pilots al basso e un altro Aerosmith, Brad Whitford, alla seconda chitarra. Insomma, una celebrazione nella celebrazione, diventata ancora più appetibile quando, un paio di giorni prima, cominciano a circolare voci secondo cui Steven Tyler si sarebbe unito alla cricca di Perry.

Entro all’Hollywood Bowl e, per la prima volta, mi accomodo in una sezione che di solito vedo col binocolo: quella denominata Garden, ovvero posti a sedere comodissimi, posizionati a pochi metri dal palco, appena dietro la Pool Circle, leggasi poche decine di persone in piedi a ridosso del palco, che per questi concerti pagano migliaia di dollari a cranio.

Queste arene, negli Stati Uniti, rispecchiano perfettamente la gerarchia sociale: più paghi e più ti avvicini al palco, a scaglioni progressivi, in perfetto ordine, e guai a spostarsi, la sicurezza ti rimanda al tuo posto in tempo zero. Intorno a me, signore e signori danarosi, che mentre guardano il concerto degustano vinelli (ci sono bottiglie da 750 ml che partono da 80 e arrivano a quasi 2000 dollari) e sgranocchiano snack venduti nelle famose picnic boxes (50 dollari per una scatola striminzita, 160 per quelle che, alla fine, sono solo un pelo più grandi). Qualcuno ordina addirittura una cena completa a prezzi da ristorante stellato. Il panino con la salamella venduto a 10 euro ai nostri festival qui diventa un miraggio.

Meno male che ci pensano Joe Perry e soci a ricordarci che siamo pur sempre a un concerto rock’n’roll. Le origini del Joe Perry Project, forse non tutti lo sanno, risalgono addirittura al 1979, quando Perry abbandona temporaneamente gli Aerosmith e registra l’album Let the Music Do the Talking. Da lì in poi, il progetto è stato riesumato ogni qual volta se ne è presentata l’occasione, spesso coincidente con qualche casino interno agli Aerosmith.

Joe Perry e Steven Tyler all’Hollywood Bowl prima degli Who. Foto: Randall Michelson/Live Nation-Hewitt Silva

Joe Perry Project, col chitarrista degli Aerosmith e Chris Robinson dei Black Crowes, alla batteria Jason Sutter. Foto: Randall Michelson/Live Nation-Hewitt Silva

Di quell’album di debutto, all’Hollywood Bowl vengono proposti due brani; per il resto, è un tripudio di cover, le migliori delle quali, manco a dirlo, una bellissima versione di Twice As Hard dei Black Crowes (facile, con Chris Robinson alla voce) e Mama Kin degli Aerosmith, per la quale viene chiamato sul palco uno che di jam se ne intende, l’onnipresente Slash, che Mama Kin la suonava con i Guns già agli esordi. Sorvoliamo invece su Vasoline degli STP: in tutta onestà, non è nelle loro corde.

Quando, sul finale, da bordo palco entra in scena Steven Tyler con il suo iconico microfono avvolto nei drappi di stoffa e la chioma sgargiante, tutti si alzano in piedi. Tyler e Perry li avevamo già visti pochi giorni fa sul palco dei VMA con Yungblud; questa volta, invece, c’è anche Whitford, praticamente gli Aerosmith, con un’altra sezione ritmica e un paio di rockstar aggiuntive che, si sa, non fanno mai male. Con Walk This Way parte un boato, e a seguire The Train Kept A-Rollin’, grandi classici a cui forse manca la fisicità di un tempo, ma che questi monumenti del rock interpretano ancora con un carisma fuori dal comune. Prima di congedarsi, Steven annuncia l’ormai famigerato EP con Yungblud, One More Time, anticipato dal singolo My Own Angel, uscito oggi. Si tratta del primo materiale a firma Aerosmith dal 2012. È una sorta di testimone che la vecchia guardia passa alle nuove generazioni.

E a proposito di generazioni: quella di Roger Daltrey e Pete Townshend è la generazione che il rock lo ha praticamente inventato. Daltrey ha 81 anni, Townshend 80. Queste due leggende ci sono praticamente da sempre. «Avevo 16 anni quando sono entrato in questa band», ci ricorda Townshend. Musicalmente parlando, sembra che nulla sia cambiato. Certo, c’è una band fresca e solida a sorreggere il tutto, incluso Simon Townshend, fratello minore di Pete, ma anche i due signori là davanti non scherzano. Daltrey è addirittura commovente: la sua voce è cambiata con gli anni, ovviamente, ma ad avercene di cantanti così. Si muovono poco, è vero, ma ogni tanto qualche guizzo ce lo regalano: il microfono rotante per Daltrey e l’iconica pennata di Townshend sono ancora lì, e quando arrivano fanno sempre effetto.

La scaletta è molto simile a quella dei recenti concerti italiani: un vero e proprio greatest hits, con grandi classici pescati a piene mani da Who’s Next e Quadrophenia, soprattutto. Ma tra una Baba O’Riley e una 5:15, non mancano ovviamente le hit di Tommy, My Generation e Who Are You. E se in Italia avevano trovato spazio anche brani come I’ve Had Enough (sempre da Quadrophenia) o The Seeker, qui si ripropone la bellissima I Can See for Miles, da The Who Sell Out del 1967, l’anno in cui, appunto, la band sbarcò in America per la prima volta.

Pete Townshend a Los Angeles. Foto: Randall Michelson/Live Nation-Hewitt Silva

Gli Who all’Hollywood Bowl. Foto: Randall Michelson/Live Nation-Hewitt Silva

La scenografia è essenziale: la band al centro del palco, e sugli schermi l’iconografia che da sempre li accompagna: il blu, bianco e rosso della Union Jack, immagini della Londra degli anni ’60, foto degli esordi, con John Entwistle e Keith Moon. Questo è materiale che è entrato di diritto nella cultura britannica, non dimentichiamolo. Tutto lo show ha un sapore nostalgico che non viene mai meno. Ascoltiamo queste canzoni, eseguite in maniera cristallina, e ci illudiamo che non sia ancora venuto il momento di salutarci. Vicino a noi, anche Slash e Duff McKagan si godono lo show come fan qualsiasi.

Con The Song Is Over, che dà anche il nome al tour, i musicisti si congedano e sul palco rimangono solo Roger e Pete. Il primo con una tazza di tè in mano. Eseguono Tea & Theatre, solo voce e chitarra acustica, al termine della quale, visibilmente commossi, salutano il pubblico di Los Angeles. «Mi piacerebbe dire “arrivederci alla prossima volta”», dice Pete. «Ma probabilmente non ci sarà una prossima volta».

Eh già. Ci sono ancora una data a Los Angeles e una manciata di concerti prima della fine del tour. Poi, forse, qualche show in Inghilterra. Ma ormai siamo agli sgoccioli. La generazione degli Who è arrivata al capolinea.

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