«Siamo proprio in spiaggia». Lo dice un ragazzo, felice, mentre sposta il suo telo sottopalco. È lo stesso telo che poco fa aveva steso sulla battigia. Ha lasciato che si asciugasse, ha fatto due tiri a beach volley – perdendo – e poi si è sdraiato sotto i pini marittimi del Parco BussolaDomani. Abbastanza vicino per ascoltarsi i Tare e gli Yard Act, abbastanza lontano per potersi anche distrarre se non gli va di sentirsi tutto il live. In fondo lui qui, stasera, ci è venuto per i Mogwai. Aveva sentito parlare di questo festival, e finalmente ora è qui. Conosceva un po’ la storia della location. Il locale La Bussola di Bernardini, tempio della musica italiana (e non) tra anni ’60 e ’80. De André, Bongusto, Vanoni. Ma anche Aretha Franklin, Ray Charles, Ella Fitzgerald e Duke Ellington. Poi il lancio di Bussoladomani proprio in quel parco – dove c’è il suo telo adesso, che per la verità è ancora un po’ umido – e dove hanno appena iniziato a suonare gli Spiritualized. Ignorava chi fossero ma gli piacciono. Avvicina un po’ di più il telo al palco. Lo stesso palco che ha ospitato l’ultimo concerto di Mina, nel ’78, prima che diventasse un ologramma.
Gli Spiritualized – freschi di Primavera Sound – finiscono. Decide che li ascolterà e li aggiunge su Spotify. Poi si lega l’asciugamano alla vita e si alza. C’è movimento sul palco. Una bandiera della Palestina viene piazzata sul Fender Twin Reverb, e un uomo con accento scozzese afferra il microfono e, calmo, annuncia: «Hi, we are Mogwai». La platea de La Prima Estate ha solo un pensiero, unisono: «Cazzo, si dice Mogw-a-i [ˈmɒɡwaɪ], e non Mogw-e-i [ˈmɒɡweɪ]». Epifania fonetica. Poi si accendono gli ampli, e di fronte al muro di suono che esplode dal primo accordo i quesiti di pronuncia passano in secondo piano. La Prima Estate – come nota Tommaso Colliva – è uno di quei festival in cui i Mogwai si possono sentire ai volumi dei Mogwai. Quindi in cui si viene spazzati via dal suono. Loro stanno fermi immobili a dir la verità. Cinque ombrelloni piantati a terra che a malapena ondeggiano. Alex Mackay – non a caso turnista – ogni tanto si azzarda a fare qualche passo in avanti, ma a fronte di tutta quella staticità sembra che stia sbandando, come vittima di un’improvvisa raffica di maestrale. Tant’è che un padre in prima fila grida, impossibile sentire l’invocazione, ma il labiale è chiarissimo: «Attenti, c’è un ombrellone che sta volando via!». Richiamato, Alex si rimette in postazione con due sassi a tenerlo fermo. Un immobilismo da cui si sprigiona una massa sonora che scuote le viscere a tutto il lungomare tirrenico, mutando la morfologia acustica del litorale, echeggiando dal Canyon della foca monaca di Capraia, alla panchina della piazza di Buggerru, da cui Iosonouncane sta immaginando il suo prossimo disco, che a questo punto avrà inevitabilmente influenze post-rock.
Alla quarta traccia, nel mio fascicolo sanitario online si è generata automaticamente la richiesta di una ricetta per una visita dall’otorino: ma ne sarà valsa la pena. Nella scaletta una robusta rappresentanza dell’ultimo album The Bad Fire, ma si viaggia nella discografia della band di Glasgow, dall’inevitabile Take Me Somewhere Nice a Ritchie Sacramento, passando per How to Be a Werewolf, a ricordare al pubblico che l’hardcore non morirà mai, ma tu sì. Il primo stacco di We’re No Here ha fatto schiudere l’uovo di una tartaruga marina sulla spiaggia di Lloret de Mar, che, appena nata, tra i cocci, con gli occhi lucidi ha sussurrato alla madre: «Grazie per avermi fatto nascere la notte in cui c’erano i Mogwai headliner a La Prima Estate». Mamma tartaruga non si è nemmeno girata: «Stai un po’ zittino per cortesia, sto cercando di ascoltare».

I Mogwai a La Prima Estate. Foto: Fabio Paleari
Lido di Camaiore si sveglia tranquillo sabato mattina: oggi inizia l’estate, ed è una classica estate italiana quella del Lido. E La Prima Estate ne è parte integrante. Si passeggia sul lungomare. Giuni Russo, biciclette, gelati, racchettoni, olio abbronzante, Super Santos e Donatella Rettore. La Prima Estate è un festival che dà tranquillità. Si sta bene. Fa quasi impressione: è così inusuale per un festival così grosso, con dei nomi così importanti, che ti chiedi se ci sia una fregatura in arrivo. Nelle prime ore ti interroghi su dove sia l’inghippo. Poi abbassi le difese e te lo godi, e scopri che non c’è trucco e non c’è inganno.
È un festival dove all’ora di punta, ma anche in qualsiasi altra ora, puoi trovare uno dei produttori, Enrico D’Alessandro, con fare da bagnino rassicurante a bordo (non piscina) palco. Occhiali da sole, ti saluta con fare papale sorridendo e si gode l’oasi estiva che ha messo in piedi. Si vive i concerti, ma anche i contorni dell’esperienza. Degustazione di vini, yoga mattutino, la selecta del mezzodì del Music Lunch Lovers al Bagno Santeria Belmare. Le chiacchierate/interviste agli artisti e addetti ai lavori sul rooftop del Versilia Lido UNA Esperiene con Massimo Coppola, l’animatore del villaggio vacanze La Prima Estate.
Partendo da aneddoti di hangover imbarazzanti («No, io non ti dico niente. Non sono divertenti, sono umilianti. Ne parlo al massimo con lo psicoanalista», difficile non empatizzare con il depistaggio di Enrico Gabrielli), finisce per riflettere sullo stato della musica emergente in Italia, sull’utilizzo dell’intelligenza artificiale nella composizione, e sul sound design degli elettrodomestici con Taketo Gohara. Proprio l’utopia free entry con musica 7 giorni su 7 del Detune, (aperto nell’autunno 2024 a Milano, nelle mura del fu Atomic Bar) è partner de La Prima Estate con Next Stage: La Prima Estate, l’iniziativa-contest che ha portato alla selezione di sei nomi emergenti per aprire ogni serata. I vincitori: Tare, Le Nora, Giacoprudente, Rip, Nicaragua e La Gente.
Finito il gioco aperitivo sul rooftop, già echeggiano a qualche centinaio di metri i Calibro 35, che poco fa erano qui a chiacchierare, ma che nel mentre hanno iniziano il loro set. Per la prima volta il loro groove poliedrico è accompagnato dai visual, tra il caleidoscopico e il nazionalpopolare, curati da Matteo Castiglioni. Dalla sua piattaforma Gabrielli si fa consegnare strumenti a fiato di svariate misure e fattezze, mostrando maestria non solo nel passare dal flauto traverso al sax tenore, con una mano sui synth, ma anche nei tempi record in cui è in grado di montare un sax alto: mai in ritardo, mai in anticipo, semplicemente giusto in tempo per l’attacco. Come al solito, la sensazione è che loro si divertano a suonare sul palco come potrebbero divertirsi in quel pomeriggio a semestre in cui si trovano e scrivono un disco in una sala prove. Ma è entusiasmo vero, e contagioso, e alla fine del set – stretto nelle prime file – mi ritrovo in una fossa di sabbia. Me la sono scavata da solo, muovendo freneticamente i piedi che seguivano inconsapevoli le peripezie di Exploration.
Sono notti di Prima Estate, e la carrellata di artisti è arrembante. St. Vincent è una mina. Si dimena sul palco, parla, si sdraia, sdrena, seduce prima tutti i suoi musicisti, uno ad uno, e poi il pubblico. Tacco importante e occhio sicuro, si mangia il palco facendo l’amore con la sua chitarra. Essendo la sua chitarra progettata appositamente su misura per lei, e portando pure il suo nome – la Ernie Ball Music Man St. Vincent – si sta sostanzialmente masturbando. Lecca la telecamera, lancia a terra il theremin dopo un assolo (da qualche parte, in quel momento, Vincenzo Vasi ha avuto un colpo di singhiozzo): insomma, fa un gran casino.
Per un attimo ti chiedi se forse sta esagerando, ti chiedi dove finisca lei e dove inizi il personaggio, se Annie Clark e St. Vincent combaciano veramente o se è una forzatura. Non riesci a risponderti, ma alla fine non te ne importa nemmeno, perché tutto funziona e rimani fermo impalato a ti abbandoni a quell’abbraccio, indeciso se lo stai ricevendo, o se sei tu a darlo.

Gli Air a La Prima Estate. Foto: Stefano Dalle Luche
Si è fatto buio. Sul palco entra un team impressionante di tecnici. Un esercito. Con sincronizzazione stupefacente si adoperano per erigere un parallelepipedo bianco, marmoreo. Emerge questo blocco. Camera oscura, forziere, cassetto dei desideri, urna, monolite, cubo di Rubik, cucciolone, bossolo, matrioska, teca, passaporta, alveare, tassello mancante. Allestiscono quella che probabilmente è – tra le opzioni sceniche – il set che renda più simile possibile un palcoscenico a uno studio di registrazione. Perché è solo lì che gli Air sono veramente a loro agio.
A differenza di uno studio, fortunatamente, il parallelepipedo che si materializza sul palco de La Prima Estate ha una parete in meno, che ci permette di sbirciare dentro. Il fonico di palco fa gli ultimi check. Dalle casse parte Uccellacci e uccellini (Titoli di coda) di Ennio Morricone. Domenico Modugno canta “Come sempre, finisce così, comincia così”. Sul palco non entra Totò, ma gli Air. Appena prima dell’inizio del loro set metto una sigaretta tra le labbra, ma mi accorgo che il mio accendino non funziona. Faccio per chiederlo, ma in quel momento partono le percussioni di La femme d’argent. Mi dico: «Vabbè, lo chiedo alla prossima, fumo tra un po’ che ora voglio godermi la prima canzone». Dopo un’ora e mezza, al secondo bis – Alone in Kyoto prima, Electronic Performers poi – ho ancora la stessa sigaretta tra le labbra. Spenta.
Nicolas Godin e Jean-Benoît Dunckel (Louis Delorme ad accompagnarli alla batteria) arrivano dai lati corti del parallelepipedo, in abito bianco immacolato, un po’ Fitzcarraldo un po’ 2001: Odissea nello spazio. Entrano nell’astronave e per 90 minuti ti trasportano nei loro soundscapes distesi, eterei e rarefatti. A un certo punto ha anche iniziato a piovere: non se ne è accorto nessuno. Tutti erano altrove. Solo a fine concerto – quando finalmente riesco ad accendermi la sigaretta – mi rendo conto della grandezza di quella performance. La si riconosce nella commozione dei presenti, nella gratitudine sincera, nella docile euforia con cui ringraziamo gli artisti per averci ospitato nel loro mondo per una frazione di notte. Nicolas Godin può dormire sonni tranquilli: qualsiasi traccia di sindrome dell’impostore dovesse ancora presentarsi, non ha motivo di essere.
È stato sicuramente l’highlight del weekend. Che ancora non era finito – ieri hanno chiuso Giacoprudente, Ramona Flowers, Nic Cester e TV on the Radio. Il Festival andrà avanti anche il prossimo fine settimana, con, tra gli altri, Lucio Corsi, Grace Jones e Moodymann. Ma per me era un po’ finito lì. La mattina seguente avevo la netta e destabilizzante sensazione di essere ancora dentro Moon Safari. Al pomeriggio, quando – sovrappensiero, incomprensibilmente – non sono sceso dal treno a Pisa Centrale e ho quasi perso un aereo, ne ho avuto la definitiva conferma. Uscirne sarà un processo. Gli Air mi devono un taxi da Pontedera all’Aeroporto di Pisa-San Giusto Galileo Galilei, ma direi che per il momento siamo a posto così.