Come passare di fronte al luna park in cui andavi da bambino per ritrovarlo ancora lì soltanto più arrugginito un poco inquietante. “Ho di nuovo un anno in più / allo specchio c’è un altro / e neanche mi dà del tu”, canta Franco126 in Scacciapensieri. C’è un vecchio luna park salendo al Gianicolo verso il Fontanone, proprio in cima ai 126 scalini che fondano l’ultima piccola mitologia romanesca, già tutti luoghi da canzonetta. Non è escluso che qualcosa sia rimasto nell’accenno di scenografia del tour estivo che abbiamo visto venerdì e domenica a Roma, data sold out replicata all’Auditorium. Pienone. Telefonini. Cori.
Difficile fare una classifica di gradimento delle canzoni tra il pubblico di molte età, più ragazze che ragazzi, che ha riempito l’arena. Franco e i suoi musicisti stanno di fronte a un tendone da indovini (La Zingara? Solo per i cultori del vintage tv), con una grande palla di cristallo per indovinare le canzoni giuste, le luci di un salotto e da un lato la buffa cabina rossa del mago Zoltar che scambia qualche battuta in romanesco. Zoltar126 come gli scalini, il vecchio numero della ballotta che è venuta a salutare l’amico del bar. Salirà sul palco Gianni Bismark per Università, il saluto a Ugo Borghetti sotto il palco prima di cantare Simone (“prende sempre la vita come viene / come fosse un cabaret”: è lui).
Il tutto non sarà chissà quale cabaret, d’accordo. L’impaccio di certe presentazioni fa il paio coi pensieri che si incastrano nella fonetica pigra delle t e delle d, delle g raddoppiate, lo stile mumble del rap di queste parti poi travasato nell’indie (pure qualche anno è passato dai tempi dei “motorini sempre in due”), ora nel vintage canzonettaro, coi ragazzi e le ragazze disposte a farsi attraversare dalla prova di sentimentalismo, mostrare il cuore sotto la scorza dura, borgatara, metropolitana, Roma nun fa la stupida stasera, specialità della poesia di queste parti. I sampietrini se li sono portati via quasi tutti i lavori del Giubileo.

La cabina del mago Zoltar. Foto: Giuseppe Maffia
Le canzoni di Franco che parlano di malinconia per la prima volta cominciano a essere pure loro oggetti nostalgici, malinconia condensata in un curioso paradosso spaziotemporale. Tutto sommato, nella sera dove senti il fresco del Tevere, pure i grandi dischi volanti progettati da Renzo Piano per l’Auditorium (più raccolto dei circhi massimi che ora vanno per la maggiore) hanno a che fare qualcosa con il tempo che in quelle canzoni si allunga e si accorcia, shrinking come nelle vecchie storie di fantascienza e di meraviglia. Fino a esplodere in un’istante soltanto. L’istante in cui “ho incrociato il tuo sguardo girando l’angolo” (Angelo).
Il tema di Angelo è lo stesso del sonetto più celebre di Baudelaire A una passante. Incroci una donna bellissima e sei triste perché sai che non la vedrai mai più: l’istante, la metropoli, la Parigi del XX secolo, spleen. Ma nella Roma del XXI secolo Franco ha tutto il tempo di incrociare una che cammina distratta “schivando il traffico” e immaginare con lei una vita intera, magari “svegliarsi un lunedì di settembre” con addosso soltanto una maglia XL. Diabolico e crepuscolare il tocco della parola quotidiana che afferra la poesia e la tiene stretta nelle tasche perché non voli via. Immalinconirsi perché quella vita non sarà mai, e anche tirare un sospiro di sollievo per tenersene alla larga. Sarà forse uno dei tanti futuri possibili ai quali è intitolato l’ultimo album, e il tour.
Il mago Zoltar di Big aboliva in un attimo il tempo e poi spariva, lasciando Tom Hanks a fare slalom tra i guai, come ci ricorda Franco in San Siro. Tempo sospeso, in cui tutto si mescola e si rimescola, dove tutto è passato e presente. Le canzoni di Franco sono quell’istante, galleggiano negli accordi di settima e sesta, appena un po’ jazzy d’antan. Il maestro Califano qui sempre presente in ispirito odiava che lo chiamassero l’Aznavour di Trastevere. Franco non ha problemi a mettersi sulla linea del cantautorato minore che ha Califano come padre, e cult d’epoca come Sergio Caputo e Pino D’Angiò come illuminazioni – ascoltati entrambi nella programmatica scaletta di introduzione e fine concerto.

Foto: Giuseppe Maffia
Quando sul palco sale in persona Federico Zampaglione dei Tiromancino, pubblicamente ringraziato da Franco per l’ispirazione e la vicinanza durante la realizzazione dell’album Futuri possibili si capisce meglio l’omaggio profondo a un genere e a una scrittura. I più grandicelli ricorderanno il verso “qualunque cosa pensassimo in due poteva succedere” della Descrizione di un attimo di Zampaglione, che lavorava sulla stessa malinconia dell’istante, delle scelte e delle strade parallele. Il verso vale un’epoca. Vale “dagli una mano a faje di’ de sì” per quel che ci riguarda qui a Roma, giochiamo in casa.
Con Zampaglione Franco canta “Con che faccia ritorno da te (…) adesso che stai pensando a un altro”, il ritornello killer di Frasi fatte, sopra una progressione armonica sofisticata che riporterebbe dritta a Eduardo De Crescenzo di Ancora (e alcuni album dimenticassimi, notevolissimi) citato spesso da Franco tra le “influenze” (dove avrebbe potuto metterci Baudelaire, come abbiamo visto). Nella linea del cantautorato minore le canzoni volano oltre la timidezza, lo spettacolo, il tempo, diventano parte delle vite di tutte e di tutti, ci restano per sempre in un susseguirsi di istanti, anche l’altra sera sulla riva del Tevere co li grilli che fan cri cri.