La battaglia dei Nine Inch Nails: la recensione del concerto a Londra | Rolling Stone Italia
Bentornato Trent

La battaglia dei Nine Inch Nails a Londra

Grandi performance, scaletta da sistemare, qualche problema tecnico, la chitarra distrutta. Alla O2 Arena è andato in scena il Peel It Back Tour che arriverà a Milano il 24. Una lotta e uno show per intenditori

La battaglia dei Nine Inch Nails a Londra

Trent Reznor coi Nine Inch Nails

Foto: Astrida Valigorsky/Getty Images

«Se c’è una cosa che proprio non sopporto durante un concerto è quando si rompe qualcosa e non sono stato io». È l’unico momento in cui Trent Reznor si concede una battuta per il pubblico della O2 Arena di Londra, terza tappa del Peel It Back Tour, il ritorno dei Nine Inch Nails dal vivo. Questa nuova avventura è partita a Dublino, ha deviato verso Manchester il 17 giugno per arrivare il giorno dopo nella capitale britannica, in una giornata caldissima, come d’altronde anche l’arena di Greenwich, scaldata dai 20 mila corpi in attesa del Messia. In realtà sono passati solo tre anni dall’ultimo tour, ma in un panorama musicale non particolarmente entusiasmante, sapere di potere andare a sentire la musica potentissima dei NIN, suonata dal vivo, insomma, un concerto, non uno show, non è roba da poco.

E Reznor, con Atticus Ross, Robin Finck, Alessandro Cortini e Ilan Rubin, la formazione che lo accompagna ormai da qualche anno, di suonare ha voglia, e in ogni forma. Non a caso il programma è diviso in quattro parti, con altrettanti concept sonori e set-up di palco. Si parte con una pedana al centro dell’arena e con Right Where It Belongs in versione piano acustica, seguita da Ruiner e in crescendo da Piggy. Già da qui si coglie la peculiarità di questo nuovo tour. Sono pezzi che non suonava dal vivo da oltre 15 anni, soprattutto già eseguiti a Dublino, ma non a Manchester, dove ha proposto qualcosa di diverso e di ancora più sorprendente, come la prima volta di A Minute to Breathe e la prima performance dal 1991 di That’s What I Get. Non sono scelte casuali. La prima fa parte della colonna sonora del documentario Before the Flood prodotto da Leonardo Di Caprio e manifesto ambientalista. Così come non lo è I’m Afraid of Americans, cover-remix di un pezzo di David Bowie che oggi, ma anche domani e dopodomani e chissà purtroppo per quanto, è quasi necessario inserire in scaletta.

Sono scelte concettuali, Reznor non vuole parlare, non gli è mai piaciuto fare il santone, non inizierà certo adesso, ma sa bene che può lanciare il giusto messaggio attraverso la musica, che arriva potente, ma non subito. Alla terza data è evidente che sta ancora cercando la giusta sequenza. L’inizio acustico è magnifico e suggestivo, ma viene velocemente sommerso dalla seconda sezione del concerto, molto bella scenograficamente, con un velo che si frappone tra il palco e il pubblico e che crea una moltiplicazione di ombre che vedrà il suo culmine in Copy of A.

In questa seconda parte si entra in fabbrica, in acciaieria, fate voi, le chitarre di Wish sono particolarmente taglienti e la batteria suona come un’incudine, eppure il pubblico non si scalda, manca ancora un po’ d’anima. Arriva la terza sezione, nuovamente sulla pedana centrale, tutta elettronica, con il supporto di Boys Noize che fa da spalla per tutto il tour, accende il pubblico, anche se dovrebbe soprattutto accendere la mente la successione dei tre pezzi. The Warning, Only (prima volta live) e Came Back Haunted sono un manifesto programmatico e il ritorno sul palco principale, senza più velo, a dire che l’avvicinamento è avvenuto, segna l’inizio del concerto anche per la platea, almeno quella del parterre in piedi, le tribune sono penalizzate anche dall’acustica della O2 Arena che storicamente non è delle migliori.

Nell’ultima parte sono salito di una quindicina di file e il suono era di gran lunga migliore. Opportuno spendere due parole, e qualcosa di più, sul visual del palco principale, in entrambe le sezioni caratterizzato dalla dominanza di un bianco e nero di forte ispirazione lynchiana, senz’altro un omaggio vista la collaborazione tra il regista e Reznor che risale a Strade perdute (1997) e culminata con la terza stagione di Twin Peaks.

In quest’ultima parte i NIN prendono il volo, e se non è stata la cavalcata che si era immaginato Trent fino alla fine è solo colpa di una serie di piccoli intoppi tecnici che spezzano il ritmo, costringendo la band a dei brevi silenzi (da cui la battuta di Reznor sulle cose che si rompono). Peccato, perché Heresy e Closer sono pazzesche, e purtroppo dopo quest’ultima c’è stato il problema tecnico che ha rotto la magia, replicatosi poi durante I’m Afraid of Americans, mettendo a dura prova la pazienza del frontman. Ma si sa, the show must go on, e dopo una assai bella The Perfect Drug e una arrabbiata Head Like a Hole (alla fine della quale Reznor ha sfogato un po’ di frustrazione frantumando la chitarra), si è arrivati all’agognato finale, naturalmente con Hurt, a cui si è abbandonato quasi con sollievo, nonostante la brutta scena di vedere centinaia di persone abbandonare l’arena nella speranza, assai vana all’O2, di evitare la calca. Il Manchester United ha vinto una Champions League nei minuti di recupero, chissà cosa potrebbe riservare un concerto dei NIN.

Il 24 giugno i Nine Inch Nails saranno a Milano, dopo Colonia e Dessel, due date che certamente aiuteranno a dare il giusto tuning e a trovare equilibrio nella scaletta. In più, suoneranno all’aperto, al Parco della Musica, e l’impressione che queste performance al chiuso le abbiano un po’ sofferte c’è stata anche a Manchester, a detta di chi c’era. Liberare il suono senza ostacoli architettonici libererà anche loro. Detto ciò, un concerto di questo livello, per esecuzione, concept e qualità dei pezzi è merce rara al giorno d’oggi. Che qualcuno conservi a lungo Trent Reznor, Atticus Ross e la loro brigata.