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Kendrick Lamar porta la sua revolution (politica) all’Olimpico

Due ore e mezza di show, feat. SZA, incentrato sull’ultimo disco ‘GNX’, ma che raccoglie elementi da tutta la carriera del rapper di Compton. Con, al centro, la sua dimensione politica, che non ha bisogno di proclami o di apparati iconografici particolari: sta tutta nelle canzoni. La recensione

Foto press

The revolution is about to be televised / You picked the right time, but the wrong guy”. Così cantava Kendrick Lamar durante l’Half Time Show del Super Bowl nel febbraio 2025. Uno show che non solo andava messo di diritto tra le migliori esibizioni di tutti i tempi durante quello che è the big American game per eccellenza, ma che ha rappresentato un grande momento di consapevolezza, cesura e rappresentanza politica in tempi incerti e in un anno che di lì a breve avrebbe iniziato a mostrare tutto il suo orrore. Kendrick Lamar, nel 2025, non è solo uno dei più importanti artisti contemporanei in grado di spostare sempre più in là l’asticella della sua musica (per comodità chiamata hip hop) ma è anche una delle personalità più influenti dal punto di vista sociale, in grado cioè di cambiare da solo ampie percentuali dello zeitgeist.

GNX è l’impianto di base sul quale si sviluppa la scaletta del Grand National Tour, spettacolo che Kendrick porta in giro per l’Europa e gli Stati Uniti insieme a SZA. Un co-headline che funziona dal punto di vista artistico (oltre ad aver collaborato per alcune delle canzoni più apprezzate dal pubblico tra cui Luther e ovviamente All the Stars, pezzo della colonna sonora di Black Panther cantato a squarciagola da tutto lo Stadio Olimpico), ma funziona molto meno dal punto di vista “narrativo”. La sceneggiatura interna dello spettacolo è poco fluida, gli stacchi tra i momenti di Kendrick e quelli di SZA troppo netti, come se fossero due concerti in uno ma che provano a dire cose troppo diverse allo stesso momento. Il pubblico di Roma, però, è poco interessato a queste considerazioni critiche, risponde con grandissimo calore e canta praticamente tutte le canzoni (con alcune persone che dimostrano doti di flow davvero notevoli).

Hanno ragione loro, quindi. E soprattutto, ha ragione Kendrick Lamar. In due ore e mezza di show incentrato sì sull’ultimo disco GNX, ma che raccoglie elementi da tutta la carriera del rapper di Compton, si è visto all’opera un artista capace di mettere insieme stili e generi musicali, tradizioni culturali diverse e sintetizzarle in una fotografia lucida e inesorabile degli Stati Uniti, del suo sistema dello show business, delle condizioni delle comunità “non bianche” (qui non c’è solo l’identità afroamericana al lavoro, ma anche quella latina ad esempio, come dimostra l’apertura di Whacked Out Murals cantata da Deyra Barrera). Ma quello che ho trovato interessante è che la dimensione politica di Kendrick non ha bisogno di proclami o di apparati iconografici particolari: sta tutta nelle canzoni, in quello che dice e in come lo dice. E visto che l’elemento più caratteristico dello suo stile è il flow, com’è dal vivo?

Ecco: personalmente i momenti dello show che ho apprezzato di più sono stati quelli più minimalisti (se ha senso usare questa parola in un contesto del genere). Dove, infatti, Kendrick si presenta da solo sul palco con pochissimi effetti di scena e visual ridotti al minimo, per mostrarsi in tutta la sua purezza di rapper, se così si può dire. Lo fa più o meno verso la fine, inanellando una dietro l’altra Heart pt. 6/Bodies, N95, TV Off, e chiudendo sulla trionfale Not Like Us con tutto uno stadio che manda a quel paese Drake per uno dei brani più di successo degli ultimi anni. In questi momenti Kendrick si prende la scena con una naturalezza e una classe incredibile. È puro carisma e puro stile. Catalizza su di sé l’attenzione di uno stadio che non ha distrazioni nella scenografia e negli effetti pirotecnici (fiamme e fuochi d’artificio lanciati tutto il tempo dopo un po’ stuccavano) ma si concentra sulle canzoni, sul messaggio e sulla figura del cantante che però si sveste di qualsiasi pretesa messianica e si fa solo portavoce di messaggi che ha scritto.

Ed è proprio nel dialogo tra questa complessità pur nel contesto di una musica estremamente popolare (stiamo parlando sempre di un artista che fa miliardi di streaming e che ha scritto veri e propri inni come Humble e DNA) a rendere un po’ disallineato il dialogo tra Kendrick e SZA. Lo show della cantante di St. Louis è spettacolare, funziona ed è sicuramente una rampa di lancio: SZA si sta preparando a qualcosa di grosso – direi formule trite tipo il grande salto, ma stiamo parlando di un’artista che fa già gli stadi e macina centinaia di milioni di streaming quindi vediamo quale sarà il passo successivo – e la risposta del pubblico è così calorosa da farti capire che ci sono diverse migliaia di persone presenti allo stadio più per lei che per il suo collega Premio Pulitzer. Ma continuo a pensare che i due spettacoli avrebbero meritato una sceneggiatura, se non più coesa, magari meno schizofrenica. Anche perché SZA segue un concept dove il fil rouge è la metafora di lei come mantide religiosa fino alla rinascita con ali di farfalla sulla conclusiva Kiss Me More tra fuochi d’artificio, omaggi a Prince e trionfo di critica e pubblico. Kendrick invece è puro focus, puro flow, puro carisma. Se è vero che il co-headline serve a tenere alta l’attenzione e la tensione, è altrettanto vero che è un dialogo che poteva funzionare meglio. Ma ecco, di questi tempi non saranno certo repentini cambi di atmosfera, stile e umore il problema per il pubblico.

Un trionfo, quindi? Sì perché l’unica cosa che conta è la risposta delle persone e l’entusiasmo, la felicità e la commozione delle decine di migliaia di fan accorsi a Roma sono un dato tangibile e oggettivo (ho visto il concerto dalla curva e si poteva vedere tutto il movimento del parterre), che ti fa passare la frustrazione di assistere a un concerto di queste dimensioni in Italia, con la sua drammatica carenza di servizi in entrata e in uscita e la naturale tendenza all’approssimazione che quando si tratta della gestione di migliaia di persone diventa non un tratto caratteristico ma un segnale di poca serietà. Dalla cronica penuria di bagni chimici prima di arrivare dentro lo stadio alla totale assenza di segnaletica per gestire il flusso e lo smistamento delle persone fino al cambio delle disposizioni di quello che si poteva portare o meno dentro uno stadio, e per pudore taccio sulle modalità con cui si arriva e si esce dall’Olimpico perché quest’estate sono stato a vedere concerti sia allo Stade de France di Parigi che a Wembley a Londra e non ha senso fare paragoni. O forse dovremmo smetterla di dire “non ha senso fare paragoni” e iniziare a pretendere servizi all’altezza del prezzo dei biglietti che paghiamo anche in Italia?

Un grande spettacolo, non sempre a fuoco al 100%, ma sicuramente capace di comunicare energia, passione e senso di appartenenza al pubblico. Con Kendrick Lamar che da circa dieci anni è davvero uno degli artisti che più di tutti hanno cercato di portare la musica hip hop a un livello di complessità, contaminazione e sperimentazione sempre più elevati senza rinunciare alla sua capacità comunicativa, alla sua dimensione popolare e all’essere portatrice di determinati messaggi di emancipazione, empowerment e autodeterminazione (tutto il dissing con Drake non è altro che una riflessione sul ruolo sociale e storico dell’artista hip hop e la sua responsabilità verso la storia di un popolo, una comunità, un genere). Questo tour lo ha confermato ancora una volta, ed è anche molto bello che il pubblico italiano abbia risposto presente.

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