Kae Tempest al Fabrique, una coccola, uno schiaffo e un abbraccio | Rolling Stone Italia
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Kae Tempest al Fabrique, una coccola, uno schiaffo e un abbraccio

Come cantare di amore e appartenenza in uno show diviso in tre atti che mette assieme rap, concerto, teatro e performance di spoken word

Kae Tempest al Fabrique, una coccola, uno schiaffo e un abbraccio

Kae Tempest live a Milano

Foto: Carlo Vergani

Dove ci si immagina un concerto di Kae Tempest? Un teatro, forse. Ma il suo pubblico non è fatto per stare seduto ad ascoltare in religioso silenzio, su una poltrona. È un pubblico che Kae guarda negli occhi costantemente, uno ad uno, come se fosse parte della sua vita e del suo percorso da sempre. Un festival all’aperto? Potrebbe quasi diventare una messa laica, accogliente nei suoi messaggi e nella sua sofferenza che redime.

Non sappiamo cosa aspettarci da performer del genere così profondamente inglesi e universali allo stesso tempo, in un luogo così distante da casa sua, che cantano in una lingua velocissima e tagliente. Kae entra in punta di piedi, senza fare rumore, un lunedì sera in un Fabrique normalmente enorme che per una volta si fa piccolo e intimo. È una presenza discreta e delicata, quasi timida, ma appena si attacca al microfono sprigiona una potenza magnetica.

Lo show di Tempest è pensato come un’opera in tre atti: la prima – I Wasn’t Ready Yet – ripercorre i pezzi dei dischi precedenti e si chiude con il suo brano più noto, People’s Faces; è un filotto di rime in cui non prende mai fiato, non sbaglia una parola, ti schiaffeggia mentre stai ancora cercando di capire dove sei, con chi sei e se hai voglia di una birra oppure no. Kae non ti lascia scampo: o sei al suo fianco o sei altrove, non esiste via di mezzo. Il primo atto è quello delle domande, delle riflessioni collettive: “Moriamo affinché altri possano nascere, invecchiamo affinché altri possano essere giovani, il senso della vita è vivere e amare se puoi, poi trasmetterlo agli altri”, canta in We Die, seguita da Firesmoke, More Pressure, Holy Elixir. Nel suo personale racconto dell’eroe, questo è l’atto in cui l’esistenza si fa buia e la musica ti salva.

Foto: Carlo Vergani

Cosa stiamo guardando? Un concerto, una performance di spoken word, 40 minuti filati di rap senza pausa tra un pezzo e l’altro, un manifesto umano? Kae Tempest è talmente indefinibile da mettere in discussione ogni categoria data e non ti chiede neanche di capire, ma solo di esserci. Il palco ha l’essenzialità delle scenografie teatrali: un telo nero su cui la sua ombra si moltiplica come si moltiplicano i sé possibili, poche frasi pongono domande esistenziali alle sue spalle: cosa diresti al te bambino? Kae ci ricorda le basi di J Dilla e il flow di Eminem, ma ci cuce dentro riferimenti a James Joyce e Samuel Beckett. L’ensemble musicale è scarno per tenere l’attenzione tutta sulla sua poesia: ad accompagnarla ci sono solo un pad elettronico, una seconda voce e le sue basi di piano registrate.

Il secondo atto – If You Wait for the Right Time You’ll Never Be Ready – è il racconto del nuovo disco uscito a luglio, Self Titled, un deciso cambio di passo nelle sonorità che porta la firma di Fraser T. Smith, già produttore di Stormzy e di Adele. È l’atto dedicato al percorso di transizione che ha fatto negli ultimi cinque anni, l’autoritratto di un cambiamento che a metà della sua vita ha deciso di affrontare e di mettere in musica, ma senza farla diventare l’unica cosa da dire. In Statue in the Square canta “Qua non hanno mai voluto gente come me / Ma quando non ci sarò più, in piazza metteranno la mia statua” e suona come un pezzo di Watch the Throne se Kanye fosse andato in terapia. I Stand On the Line, Know Yourself, Bless the Bold Future raccontano della difficoltà di essere una persona trans in un’Inghilterra sempre più xenofoba e spostata a destra, in cui l’unica forma di salvezza è vivere secondo la propria etica e non aspettare che qualcun altro ci dia il permesso di risultare scomodi. È anche l’atto in cui Kae ci mostra tutta la sua profondità musicale, che va dalla musica classica al gospel all’eclettismo di MTV prima, e di Spotify dopo, con cui è cresciuta la sua generazione. Self Titled, e di conseguenza questa seconda parte del live, è un disco in cui Kae recupera le sue radici hip hop e le mescola ad r&b, urban e una vena trap neanche troppo celata.

L’atto finale (I Think It’s Time I Stopped the Show) è quello della liberazione ed è composto da un unico pezzo: un remake di Freedom di George Michael. È l’omaggio a un’icona della musica pop, dell’Inghilterra tutta e della lotta per i diritti LGBTQI+. È il gesto con cui Kae si inchina di fronte al passato e riconosce che ogni comunità ha i suoi brand new ancients senza i quali non sarebbe possibile immaginare futuri diversi. Kae, che gli applausi non se li prende, ma li sente, ci saluta col suo mantra più famoso: “Lasciami essere amore / Lasciami amare / Lasciami dare amore / Ricevere amore / Ed essere nient’altro che amore”. Una preghiera contemporanea che a volte prende il pronome lei, a volte il pronome lui, ma quasi sempre usa il pronome noi.

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