Queens of the Stone Age, la recensione del concerto al Lirico di Milano | Rolling Stone Italia
Carpe Demon

Josh Homme mi ha minacciato con una mannaia e mi è piaciuto da morire

L’Alive in the Catacombs Tour dei Queens of the Stone Age al Teatro Lirico di Milano, un concerto per rock band, orchestra da camera e fantasmi. La recensione

Josh Homme mi ha minacciato con una mannaia e mi è piaciuto da morire

Josh Homme coi Queens of the Stone Age durante il Catacombs Tour

Foto: Lisa Dragani/Getty Images

«Cantate!», dice Josh Homme illuminato da fasci di luce rosse, lo sguardo da pazzo, il capo che si muove a tempo di musica. “Per affrontare i demoni devi liberarli, per catturare tutti i tuoi demoni… carpe demon”, cantava pochi istanti fa in un misto d’inglese e latino. Ora è sul fronte del palco e incita il pubblico alla sua destra e poi alla sua sinistra. «Cantate!», dice e noi cantiamo, per forza, quella melodia funerea e senza parole. Anche perché con una mano regge il microfono e con l’altra una mannaia che punta verso di noi. È un invasato, è un serial killer che potrebbe fracassarti la testa da un momento all’altro, è un macellaio che si crede Elvis, è un personaggio di un film di Tarantino. Se canti, hai la vita salva. Se canti, affronti i demoni con lui.

Ieri sera l’Alive in the Catacombs Tour dei Queens of the Stone Age è passato dal Teatro Lirico Giorgio Gaber di Milano. Non è uno show tradizionale, ma un concerto per rock band, orchestra da camera (o quasi) e fantasmi. È una performance teatrale intensa, in cui per 105 minuti si flirta con le idee della morte, del malessere, della violenza. Sono temi, del resto, che non mancano nel repertorio dei Queens. Homme ne sa qualcosa. Dice d’avere avuto almeno tre esperienze di quasi-morte, la prima nel 2010 quando durante un intervento è «morto sul tavolo operatorio», poi il tumore del 2022, infine i problemi di salute nell’estate 2024 che conosciamo bene e che l’hanno costretto a letto per sette mesi. E così anche il merchandise in vendita nel foyer del teatro è un trionfo di teschi.

Prima data europea dello spettacolo che è già stato rappresentato negli Stati Uniti, dove tornerà a novembre, il Catacombs Tour nasce come emanazione del concerto nelle catacombe di Parigi fatto nel 2024, con relativo film on demand ed EP, e mostra un insospettabile talento teatrale e di ricomposizione musicale. A forza di vederli dal vivo in spazi aperti, alle prese con le sequenze elettriche e meccaniche dei loro pezzi feroci e crudeli, non si credeva i Queens in grado di tenere un teatro col fiato sospeso con una voce, un paio di chitarre, una catena usata come percussione e poco più. Li si pensava unidimensionali. Notevoli in quel che fanno, per carità, ma capaci di fare solo quello, come del resto la maggior parte dei gruppi hard. E invece hanno messo in piedi un concerto che non è unplugged e non è neanche una semplice rilettura delle loro hit, ma una vera e propria rappresentazione in cui, affiancati da una sezione d’archi e una di fiati, e rafforzati sul lato delle percussioni, raccontano in musica una discesa nell’inferno della vita e della mente, con un mezzo lieto fine.

Il concerto è diviso in tre parti, una scelta intelligente che permette di non consumare fatalmente il fascino delle atmosfere e l’effetto sorpresa. Ti tengono incollato per una mezz’oretta e poi passano ad altro. Homme arriva attraversando la platea portando con sé uno sgabello. Lo sistema davanti al sipario, che per per la prima mezz’ora resterà calato, si siede e attacca Running Joke tenendo in mano una lampada portatile da lavoro. Gli altri musicisti spuntano uno alla volta da dietro il sipario, compreso un trio d’archi. Sono canzoni di un uomo in preda al dolore, a uno strazio. Le luci sono basse, blu e viola, i suoni minimali. Come se quella piccola porzione di palco non gli bastasse, Homme scende spesso in platea. Non smette di muoversi neanche quando canta una delle sue tante litanie. Per mezz’ora il pubblico trattiene il fiato e alla fine di ogni pezzo esplode in applausi e urla. È musica di un tempo sospeso, è un concerto di ombre. 

Il sipario si apre per la seconda parte. Il palco è invaso da luci rosse, siamo entrati in un’altra dimensione. I musicisti della band, che entrano ed escono in base alle esigenze di ogni canzone, sono affiancati da quattro archi e quattro fiati. I suoni percussivi sono forti, materici, primitivi, l’atmosfera tesa. Sembra la reazione malvagia al primo set, lo sfogo, la liberazione nel male. Sono canzoni che parlano di crudeltà, pericolo, smarrimento, rabbia, morte. La sezione che inizia con Someone’s in the Wolf è una Sacra d’inverno allucinata. È la parte in cui Homme impugna la mannaia e scivola sul palco come un ragazzino in preda a una strana febbre, instabile, precario. E nell’introdurre Mosquito Song chiede di rispettare i vermi, perché un giorno saremo il loro pasto.

Musicalmente è il set (35 minuti circa) più impressionante. Gli arrangiamenti sono cupi e dinamici, la musica ha una raffinatezza che non sacrifica nulla dello spirito dark del gruppo, c’è della poesia crepuscolare, ma c’è anche dell’ironia e, per via di certe parti dei fiati, un che di eroico. I Queens reimmaginano le loro canzoni all’inferno e chiudono con una versione spettacolare di Spinning in Daffodils dei Them Crooked Vultures con ostinati da incubo e Michael Shuman in completo di pelle che canta sul palco e Homme in platea, per poi concludere che “sono così su di giri che forse non riuscirò mai a tornare giù”.

E invece ci torna, nel terzo set. Dopo You Got a Killer Scene There, Man… e dopo aver ricevuto un mazzo di fiori, Homme racconta della voglia di fare qualcosa di diverso con questo spettacolo e lancia a terra la mannaia, che si conficca nelle assi del palcoscenico: la parte teatrale è ufficialmente finita. Imbraccia per la prima volta nel concerto la chitarra, e stiamo parlando di uno che è chitarrista prima ancora che cantante, e si lancia in una quarantina di minuti di musica con la band, archi e fiati, batterista e percussionista in formazioni variabili, alle prese con pezzi che reggono anche se privati dell’impasto devastante che hanno di solito e che, anzi, mostrano il loro fascino sinistro, gli intrecci, l’importanza delle scansioni ritmiche. Se le prime due parti somigliavano a un pièce teatrale, questi 40 minuti sono un mini-concerto. Si ascoltano tra le altre la nuova Easy Street (solo io ci sento una melodia un po’ alla U2?) e nel finale Like Clockwork…, che parte delicata per poi diventare solenne, liberatoria e potente. È come scrollarsi di dosso i fantasmi evocati nel resto del concerto.

«Nessuno se ne va per sempre», dice Homme introducendo l’unico bis, Long Slow Goodbye e offrendo una risoluzione alla tensione dei precedenti 100 minuti. Alive in the Catacombs non è un funerale. È morte e resurrezione di una band. Chi c’era al Lirico li risentirà suonare No One Knows, Little Sister e Go with the Flow con altre 15 mila persone, ma avrà una certezza in più: il macellaio che si crede Elvis è anche un esorcista.

Setlist:

Set 1
Running Joke / Paper Machete
Kalopsia
Villains of Circumstance
Suture Up Your Future
I Never Came

Set 2
Someone’s in the Wolf / A Song for the Deaf / Straight Jacket Fitting
Mosquito Song
Keep Your Eyes Peeled
Spinning in Daffodils

Set 3
You Got a Killer Scene There, Man…
Hideway
The Vampyre of Time and Memory
Auto Pilot
Easy Street
Fortress
…Like Clockwork

Bis
Long Slow Goodbye

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