Sembrava di stare al cimitero in una cittadina dell’Alabama, dove le lapidi spuntano dal prato incolto. O forse eravamo in una chiesa in Florida diroccata e piena d’erbacce. Qualunque fosse il posto dove Ethel Cain ci ha portati ieri sera, è stato il teatro perfetto per il rito di suoni e luci che racconta la vita e la mala sorte del personaggio che incarna. Ci voleva insomma una preghiera elettrica o una seduta spiritica per evocare lo spettro della figlia del predicatore che s’innamora, scappa dal padre che la sottopone ad abusi, percorre le strade del male e trova infine la morte. E quindi per 80 minuti ce ne siamo stati tutti quanti lì, incantati da una cosa che non è un concerto tradizionale, ma un’esperienza a cavallo tra il light show, la funzione parareligiosa, il sound design e la pratica di spiritismo.
Dopo il successo di American Teenager Cain ha fatto di tutto per non diventare una popstar, o come ha detto lei una scimmietta ammaestrata. È arrivata a pubblicare a gennaio Perverts, un’ora e mezzo di bordoni, musica concreta, rumori d’ambiente e pezzi strumentali lenti e animati da voci fantasmatiche. Ad agosto è arrivato Willoughby Tucker, I’ll Always Love You, album canonico, fatto cioè di canzoni-canzoni, ma comunque ammantato dal medesimo senso di torbido mistero. Non stupisce perciò che il Willoughby Tucker Forever Tour che ha toccato ieri l’Alcatraz di Milano, unica data italiana, non somigli per niente a un concerto pop. Il corpo della performer non viene esposto all’adorazione o spettacolarizzato, ma è negato alla vista e reso quasi immateriale. Diventa tramite.
Per quasi tutto il concerto Cain canta dietro a un microfono a forma di croce e siccome sta su un palchetto rialzato si ha l’impressione che stia salmodiando da un altare. A me la croce ha ricordato pure un vecchio traliccio dell’alta tensione e forse è entrambe le cose, simbolo religioso, ma anche della passione dell’artista per i gracchii e le scariche elettrostatiche, le torri radio, le cabine elettriche. Chissà, forse solo evocando il dio dell’elettricità è possibile entrare nel mondo che sta sul confine fra i vivi e i morti in cui è ambientata tanta musica di Cain giacché, non scordiamolo, la narratrice di quasi tutte le canzoni che si sono ascoltate ieri sera è stata uccisa e ci parla da un qualche aldilà.
Sul palco Ethel Cain parla poco e di rado, giusto tre o quattro volte nell’arco di tutto il concerto. È in ombra, a volte se ne intravede solo la silhouette, il capo nascosto dal cappuccio di una felpa, la figura celata dai fumi del ghiaccio secco. Evidentemente raccontare è più importante che interagire in modo tradizionale col pubblico. Contano di più, eccome, le luci, che sono uno spettacolo di per sé e accompagnano la narrazione musicale in modo puntuale. Conta la massa sonora che ti colpisce, più elettrica e potente di quella che si sente nei dischi. È una sorta di slowcore con note e accordi tenuti e frasi ripetute fino a diventare mantra senza parole, con chitarre twangy appena accennate, come in una versione sudista di Twin Peaks, qualche tocco folk e tra un pezzo e l’altro interludi strumentali che sembrano interferenze provenienti da un sottosopra, messaggi in codice indecifrabili, spettri che si muovono nei fili elettrici.
Foto: Helio Gomes/Virus Concerti
Foto: Helio Gomes/Virus Concerti
I pezzi sono per lo più tratti da Willoughby Tucker, I’ll Always Love You, prequel di Preacher’s Daughter che racconta sia la vertigine, sia la paura paralizzante dei primi innamoramenti, in questo caso della protagonista per Willoughby. La risposta del pubblico è fenomenale, i pezzi vengono riconosciuti e accolti da un boato dopo una manciata di note e le poche volte che Cain punta il microfono verso la gente, la reazione è pronta e precisa. I fan le sanno tutte e le cantano e creano uno strano contrasto tra il carattere lento e incantatore di certe canzoni e i cori possenti e liberatori.
La ragione per cui queste canzoni ambientate in un Sud affascinate e sinistro, dove s’intrecciano desiderio e senso di colpa, impulsi sessuali e immaginario religioso sono diventate importanti ovunque nel mondo è uno dei misteri belli della musica. Ethel Cain (che è sia nome d’arte, sia protagonista delle canzoni) e Hayden Anhedönia (la persona, prima cantante apertamente transgender della storia a entrare nella top 10 americana) sono diventate oggetto d’un culto intensissimo forse perché viviamo nell’epoca delle serie crime/horror e la storia della figlia del predicatore che fugge dagli abusi del padre solo per essere fatta letteralmente a pezzi dal fidanzato tocca una corda sensibile e racconta dell’innocenza violata di molti, della ricerca disperata di qualcosa, dell’impossibilità di trovarla. O forse perché quella dell’innamoramento per Willoughby Tucker è una storia in cui chiunque viva una certa età può facilmente riconoscersi.
“Voglio conoscere l’amore, voglio sapere cosa si prova”, canta Cain in Onanist. È un desiderio universale e universalmente negato ed è accompagnato all’Alcatraz da un muro di suono tra il metal e il noise, forse perché la risposta a quella domanda sull’amore non è solo difficile da trovare, ma è anche dolorosa. C’è anche parecchio sesso, come quando in Vacillator Cain cade sulle ginocchia e canta che “potrei farti venire 20 volte al giorno”. La parte finale è la più drammatica, giacché il concerto descrive una parabola che va dall’amore pensato, idealizzato, conteso e vissuto delle prime canzoni alle visioni tetre delle ultime. Si arriva infine a Sun Bleached Flies e cioè all’accettazione finale, al far pace con tutto, anche con la propria morte. La gente urla in modo disperato e allo stesso tempo vivo che “Dio ti ama, ma non abbastanza da salvarti” ed è la chiusa perfetta per un concerto in cui si rappresenta il male per liberarsene.
Foto: Helio Gomes/Virus Concerti
Foto: Helio Gomes/Virus Concerti
Nel giro di pochi album ed EP, Ethel Cain ha riscritto il gotico americano per la generazione Z. Persino le sue canzoni più melodiche e facili sono ammorbate da un sentimento di estraneità, da un senso di malessere, da ombre inquietanti. Alla trasparenza professata dalle popstar in cerca di legittimità attraverso una pretesa autenticità, lei oppone un racconto sì personale, ma romanzato e in cui non tutto è rivelato. Al posto di prendere la strada più facile del dialogo col pubblico, lo trasporta in un mondo parallelo inquietante. E però alla fine di un concerto del genere, cupo e intenso, ci vuole un momento in cui la tensione viene rilasciata. Succede quando Cain torna sul palco per i bis, solo due ieri sera, e fa prima Crush e poi American Teenager. Sono due pezzi intensi, ma fatti finalmente con una certa leggerezza d’animo. Per la prima volta la cantante scende dal palchetto per stare più vicina alla gente e in quegli ultimi minuti la preghiera elettrica somiglia a un concerto tradizionale. Tutti cantano l’anti-inno alle promesse infrante del sogno americano e giuro, era buio e le luci erano basse, ma m’è parso di vedere Ethel Cain sorridere.
Set list
Willoughby’s Theme
Janie
Fuck Me Eyes
Nettles
Willoughby’s Interlude
Dust Bowl
Vacillator
Onanist
A Knock at the Door
Radio Towers
Tempest
Sun Bleached Flies
Crush
American Teenager
