Il Mi Ami ha fatto l’upgrade | Rolling Stone Italia
una svolta che lancia una sfida

Il Mi Ami ha fatto l’upgrade

Con la scelta di spostare tutto il carrozzone dal Magnolia al "lungomare" dell'Idroscalo, il sancta sanctorum dell'indie, ormai un piccolo Primavera Sound, ha decisamente svoltato. Ora manca solo una cosa: il pubblico internazionale

Il Mi Ami ha fatto l’upgrade

Foto: Kimberley Ross (Kimmica)

L’edizione 2025 del Mi Ami Festival parte, come spesso è capitato in passato, bagnata. Il giovedì 22, primo giorno di live, Bladee tiene con una mano il microfono e con l’altra l’ombrello. Emma se ne frega già di più e mantiene la parola datami qualche giorno fa nell’intervista: preferisce stare sotto il palco, in mezzo alla gente. Sticazzi se piove.

Ma a differenza delle precedenti edizioni, nonostante appunto le solite condizioni meteorologiche della tarda primavera milanese, quest’anno si è rivelato un Mi Ami per davvero fortunato. La scelta di spostare tutto l’ambaradan dal Circolo Magnolia al “lungomare” dell’Idroscalo non solo ha aggiunto dei bei tramonti su specchio d’acqua alla cornice, ma ha anche evitato la solita rottura di cazzo di tornare a casa col piede da trincea, causato da un pantano ubiquo che alla lunga ti condiziona per forza di cose (e ora dirò una parola bruttissima) l’experience.

Per cui, da piccolo Glastonbury italiano, col fango che ti arriva appena sotto le orecchie, il sancta sanctorum dell’indie/itpop è diventato un piccolo Primavera Sound, con due bei palconi principali (di cui uno appunto di fianco all’acqua proprio come al Parc del Forum) e una geometria che in generale si sviluppa lungo il lago artificiale inaugurato nel 1930 per far decollare e atterrare gli idrovolanti fascisti.

Per cui sì, dal punto di vista logistico è stato un netto upgrade. Dal punto di vista artistico, è il Mi Ami, com’è giusto che sia. C’è il Giorgio Poi che ti canta le sue canzoni scritte con le sue manine d’oro, al netto di qualche problemino tecnico gestito comunque divinamente. «Su Tubature non andava il click, non andavano le luci, non andava un cazzo», mi racconta ridendo nel backstage appena dopo il live di sabato. «Per fortuna che è molto acustica. Fosse stata più suonata come le altre, sarebbe stato un delirio».

C’è la sempre dignitosissima figura che fa il Teatro degli Orrori, con il noto frontman che alla fine è un po’ il nostro Blixa Bargeld; c’è Joan Thiele che finalmente, post-Sanremo, si merita un grande palco con un grande pubblico che canta a squarciagola ogni singolo pezzo in scaletta; ci sono quegli scalmanati dei Pop_x che sono la principale causa dei lividi sul mio corpo, avendo scatenato poghi e pit e anche qualche divertentissimo stage diving; ci sono anche tanti artisti che ti vedi la prima volta dal vivo, come la promettente Lorenzza. Ci sono addirittura i metallari, come i Messa o i Fulci.

Insomma, c’era di tutto, insaporito da un bellissimo interscambio generazionale di pubblico che va dai 18 ai 45+ in totale naturalezza spontanea. E allora? E allora se ci sono tutti i presupposti, compreso quello per cui questa musica se la stanno ascoltando tanto e volentieri all’estero (vedi solo quanto ci sono andati fuori i francesi per Calcutta, Giorgio Poi o Laszlo De Simone), perché non fare l’ultimo salto e diventare un festival davvero internazionale? Staremo a vedere. Io me lo auguro, perché se lo merita.