Il Marrageddon ha fatto la storia. O quasi | Rolling Stone Italia
84 mila fedeli

Il Marrageddon ha fatto la storia. O quasi

Marracash si incorona re e non ci sono obiezioni, ma il solco del Marrageddon deve essere di ispirazione per pensare a un festival in cui il festeggiato sia il rap e il rap soltanto

Il Marrageddon ha fatto la storia. O quasi

Foto di Francesco Prandoni/Getty Images

Fino a nuovo ordine, il Marrageddon è l’incoronazione plebiscitaria del King del Rap; e forse il pelo nell’uovo è proprio questo, ma ci arriviamo.

Andando con ordine: prima il diluvio universale che, passata la paura del forfait, ha contribuito ad aggiungere una nuova entry all’elenco dei festival fangosi, aumentandone se possibile l’epicità.

L’inizio, a dire il vero, non è stato semplice: l’impressione di una freddezza generale del pubblico sulle prime esibizioni è stata prontamente notata anche nei commenti alla diretta di Twitch, dove Napoli ha già lanciato la sfida – la città partenopea è la prossima tappa del Marrageddon, e la maggior parte dei commenti sui “milanesi con il palo nel culo” arrivano da lì.

Piccola nota di colore: qualcuno, sempre nei commenti, suggerisce che il pubblico stia gestendo le energie per i pesi massimi delle ultime quattro ore di festa. La verità è molto più semplice: Kid Yugi, primo a esibirsi dopo i Dj Set, lo conoscono in pochi (purtroppo: il ragazzo spacca) e il potente set di Young Miles ha il difetto di svolgersi in pieno giorno.

In generale fino a Tedua (sì, c’era anche lui, a sorpresa, per dare un assaggio de La Divina Commedia in vista del concerto al Forum di Assago) si ha l’impressione che il tutto rimanga un po’ sottotono, una sorta di quiete prima della tempesta.

Anna Pepe, unica rappresentante femminile della line up, merita una menzione d’onore perché ha dato l’impressione di essere, tra le “nuove” leve, quella forse maggiormente pronta a questi palcoscenici, e perché mai come ieri ha dimostrato che da Bando a oggi è passata una vita, liberandosi di quel fardello. Lo ha fatto scherzandoci sopra, ammonendo il pubblico sul fatto che si tratti di una canzone che ha fatto da “molto piccola”, rivendicando senza ostentazione la sua crescita artistica e risultando in generale convincente.

Dopo di lei Ensi e Nerone, sorprese gradite, seguiti da Paky e Shiva. Quest’ultimo giocava in casa, e si è visto. 

Il primo dei pesi massimi a salire sul palco è Fabri Fibra che, nel giorno del King del Rap fa il Cardinale Mazzarino: non ha bisogno – non ne ha mai avuto in tutta la carriera – di darsi delle investiture plateali, ma ci ricorda che lui faceva le hit già nel 2004 con un medley tratto da Mr. Simpatia che fa venire al contempo esaltazione e lacrime di nostalgia. E poco conta il fatto che i pezzi più recenti non abbiano la stessa potenza (a eccezione di Stavo pensando a te, con cui chiude il suo set e che cantata da 90 mila persone sprigiona tutta la sua aura di classico).

Dopo di lui Salmo, con il solito set ibrido a cui ci ha abituato in cui, da metà in poi, si mette in console e fa drenare il fango dell’Ippodromo con terremoti di casse dritte. Devastante, come sempre. Durante il set di Salmo ci sono anche la sorpresa di Noyz Narcos e la prima apparizione di Marra, con passamontagna rosso: «Non dico niente raga, ci vediamo tra poco».

E il padrone di casa si prende la scena attorno alle 21:30: il concerto di Marracash è uno spettacolo importante, con una selezione di brani che abbraccia tutta la discografia, un corpo di ballo che regala coreografie urban dal grande impatto scenico, con fuochi d’artificio e tante emozioni. Il solo ospite annunciato in precedenza, ovvero Guè, viene accolto come ci si aspettava con affetto, esaltazione e devozione da parte degli 84 mila “fedeli” del Marrageddon per l’iconico set di Santeria. Ma le sorprese sono ancora tante: non annunciati, si presentano sul palco anche Mahmood, Blanco, Madame e Lazza. Sipario, appuntamento il 30 settembre a Napoli.

In definitiva, cosa resta del Marrageddon?

Con ordine: durante tutta la giornata chi si avvicendava sul palco ci teneva a ripetere che ieri si stava facendo la storia. In parte è vero: è la prima volta che un rapper italiano tenta quello che fino ad ora è riuscito solo altrove. Il paragone con Utopia di Travis Scott è scontato, è chiaro che l’idea abbia a fuoco quel precedente.

La storia la si è fatta nel momento in cui forse il mondo hip hop non aveva mai avuto una consacrazione pubblica di questa portata: 84 mila persone per una carrellata di rapper non si erano mai viste; la storia si è fatta anche dal momento in cui il sasso lanciato nello stagno da Marracash ha creato uno tsunami ingombrante per tutta la scena: è un precedente che da oggi in poi è impossibile ignorare. Chiunque deciderà di tentare qualcosa di simile dovrà sempre fare i conti con questo paragone.

Al contempo, chiunque non riesca a fare qualcosa di simile, difficilmente potrà ambire alla palma di King che ieri Marracash si è intestato senza che nessuno facesse obiezioni, offrendo una prova di questo primato molto più difficile da contestare rispetto all’ostentazione da rap game e anche agli oscillanti numeri di Spotify o della FIMI. D’altronde, se il rap è una repubblica democratica fondata sulla realness, cosa c’è di più real di 84 mila persone a un concerto?

La storia la si è fatta poi nel momento in cui, stilando la scaletta, Marracash e il suo entourage hanno fornito una sorta di consiglio dei favoriti: chi non c’era, soprattutto tra le nuove leve, avrà avuto molto da invidiare a chi c’era, e chi c’era lo metterà in prima pagina sul suo CV.

Ma torniamo al pelo nell’uovo che citavamo all’inizio: l’impressione è che, proprio perché si è trattato di un festival “marracentrico”, la storia la si sia fatta solo a metà. Intendiamoci: è un bene. Vuol dire che c’è ancora spazio per approfondire, affinare i dettagli e preparare un evento che metta al centro molte delle cose che ieri sono state in controluce, oscurate dal bagliore accecante di Marracash.

Il rap è un genere in cui oggi genitori con tatuaggi in faccia accompagnano i figli piccoli e curiosi al concerto e cantano insieme ad adolescenti gli stessi brani: le generazioni attraversate cominciano ad essere almeno tre, e il genere è lontanissimo dal dare segni di invecchiamento; il rap è anche un genere in cui, come nei jazz bar di Londra ma in scala maggiore, tutti collaborano con tutti.

C’è stato almeno un ospite in ciascuno dei set di ieri, e in molti casi chi ospitava veniva poi ospitato. Per essere un genere di numeri uno, è incredibilmente collaborativo. Per costituzione. In sostanza, per i posteri: al Marrageddon è stata fatta la storia del rap, sì, ma dal punto di vista del suo nuovo (vecchio?) re.

Oggi come lui, di diritto, non c’è nessuno. Ma il solco del Marrageddon può essere di ispirazione per pensare a un festival in cui il festeggiato sia il rap e il rap soltanto: quella sarebbe la pagina di Storia capace di mettere d’accordo tutti. Più di quanto lo sia il Marrageddon.