Dev’essere strano essere Drake. In 15 anni di carriera il rapper canadese ha pubblicato 8 album; tutti arrivati al primo posto della classifica americana, cifra tonda che si raggiunge con i due joint album con 21 Savage e, l’ultimo di quest’anno, con PartyNextDoor. Oltre a questo, ha raggiunto per 13 volte (14 se contiamo la sua partecipazione in Sicko Mode di Travis Scott) la vetta dei singoli più venduti in US, un record che lo porta a pari merito con Michael Jackson: nessuno infatti è riuscito a far meglio. Eppure, nonostante questo, non è minimamente considerato tra i rapper più importanti della scena hip hop.
E anche ieri sera a Milano, in un Forum strapieno di fan adoranti (12 mila presenze, il massimo possibile), il primo dei 4 che affronterà in città insieme a PartyNextDoor, Drake ha di nuovo dimostrato che i numeri sono dalla sua, molto meno, invece, la cultura rap: sarà che in carriera Aubrey Drake Graham ha fatto più o meno tutto il possibile per trucidare la sua coolness. Gli inizi da young actor nella serie teen drama canadese Degrassi: The Next Generation, il disinteressamento alla cultura in favore del successo commerciale, la mancanza di street credibility («mia madre veniva spesso a far le vacanze a Positano, a Milano, e il mio sogno era poterla riportare qua», racconta in un discorso piuttosto confusivo a inizio live), le figuracce da meme come il rifiuto esplicito di Rihanna in mondovisione sul palco degli MTV VMAs nel 2016, le scommesse milionarie sportive continuamente perse, la collana di Tupac appena acquistata che a quanto pare, stando alle parole di Suge Knight (co-fondatore della Death Row Records, l’etichetta di Pac), è un falso. E, non dimentichiamo, il chiodo sulla lapide: la sonora sconfitta nel beef con Kendrick Lamar che, fortuna nostra e sfortuna sua, ha generato una delle più grandi canzoni rap mai scritte, Not Like Us.
E, come spesso accade, aveva ragione Kendrick: Drake non è il rap, è altro, per i veri della scena è not like us. Il punto sta proprio qua: Drake, macchinoni, soldoni e catenelle a parte, di rap ha davvero poco. Nell’attitudine quanto nella musica. Mettiamoci il cuore in pace: più che un rapper, è una popstar fatta e finita. Non avrà la street cred, la coolness dei più fighi, e nemmeno l’amore di molti colleghi, ma lo show pensato dall’artista canadese per il tour congiunto con il fido connazionale PartyNextDoor è qualcosa di semplice, ma imponente, che ha più a che spartire con i grandi show del pop contemporaneo piuttosto che con i compagni di genere come Kendrick Lamar.
Partiamo dalla sua architettura. Non uno, ma ben due palchi posti uno di fronte all’altro, con altrettante passerelle sopraelevate che li congiungono dai lati. In questo modo Drake può muoversi su un circuito ovale vetrato, arrivando a pochi passi dai fan posizionati a ogni lato del palazzetto. Oltre alla prossimità, che nell’epoca dei mega-concerti è un privilegio per il pubblico pagante, il vantaggio di questa conformazione – capace di rendere perfettamente instagrammabile lo show da ogni punto del palazzetto – è che muovendosi sulle passerelle Drake viene costantemente seguito dal pubblico, creando un live movimentato capace di farci dimenticare che, nel 90% delle due ore di show, sul palco è completamente solo. No band, no dj (se non per una sezione del concerto), no corpo di ballo, al contrario di PartyNextDoor che nei suoi 20 minuti di show solista rimane statico su uno dei due palchi venendo circondato da ballerine in bikini, diventando così presto il momento più debole e dimenticabile della serata.
Un altro atteggiamento più da popstar che da rapstar è che Drake, in queste due ore di live, rappa davvero poco. Aiutato spesso dalla voce in base, o dal pubblico chiamato a partecipare a gran voce, non tenta in alcun modo di mostrarsi come un rapper tecnico, né tantomeno di mettersi alla prova. Lui canta, quello gli piace, anche con fare piacione da crooner (soprattutto all’inizio dove ricorda più il connazionale Michael Bublé che un rapper). E in fondo perché non farlo? Drake ha le hit – tante, tantissime – ed è bravissimo a dosarle negli oltre 30 brani in scaletta, mantenendo le energie sempre al punto giusto. Si parte quasi subito con Passionfruit, per passare poi per Sicko Mode, God’s Plan, Nice for What, One Dance, Hotline Bling; giusto per citare alcuni di quei brani che hanno generato miliardi di ascolti sulle piattaforme portandolo a essere, senza dubbio, uno degli artisti più di successo degli ultimi 15 anni.
A guardarci intorno, come a conferma, è chiaro che non siamo in mezzo al classico pubblico rap. Non c’è la gente che vuole le barre dure e pure di Kendrick Lamar, o l’eclettismo di Tyler, The Creator, giusto per citare due che in Italia sono passati da poco. Il pubblico, in gran parte straniero, sembra in buona parte uscito da uno spin off di The Kardashians, o dal privé del The Club di Milano. Gente che, di norma, non vedi ai concerti, ma in quelle discoteche basate sulle economie dei tavoli e delle bottiglie. Perché alla fine, nonostante i gomiti alti e i beef per reclamare il trono di una scena che non lo stima davvero, Drake è questo: musica urban da club per gente per cui la forma conta più del contenuto. E Drake, la forma, la plasma davvero come nessun altro: nelle hit da cantare come in un certo paraculismo (la frase “fuck my ex” in loop da You Broke My Heart anticipata da un discorso piuttosto cringe dell’artista che ha chiesto ai presenti di urlare il nome dell’ex tossico). È chiaro perché sia uno dei rapper più odiati della scena, ma è altrettanto evidente perché sia il più amato nel mondo del pop.
Drake è l’amico un po’ sfigato che ce l’ha fatta. Quello che prova in tutti i modi a diventare il più cool, a essere considerato il migliore, ma che nel suo continuare a provarci finisce per farci spesso dimenticare l’enorme talento melodico (la melodia, certo, non il flow). È uno dei migliori artisti pop al mondo, non ci sono dubbi, ma il suo atteggiamento, le sue uscite cringe (come quando dal palco trasforma il bere uno shot di tequila in una questione di vita o di morte, o il costante definire il pubblico “una famiglia”), il suo essere un po’ un eterno piangina, ovvero tutti quegli slanci superflui per colmare un’interminabile voglia di essere amato a qualsiasi costo, fanno sì che non lo si riesca mai davvero a prendere sul serio. Non è fan service, quasi mai, è un bisogno costante (e a volte pedante) di riconoscimento.
Dopo due ore di live, e con un palazzetto sfinito dopo questo scambio di energie altissimo, l’unica cosa che vorremmo fare è poter mettere una mano sulla spalla di Drake per confidargli in maniera fraterna: «Hey, Aubrey, sei bravo. Rilassati, goditela. Non è davvero importante essere il migliore».













