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Il listening party di Kanye West a Milano è il futuro in cui non vorremmo vivere

Ieri sera Ye (mascherato) e Ty Dolla Sign hanno fatto ascoltare ‘Vultures 1’ mostrandosi sul parterre del Forum senza microfoni. Qualcuno ha gridato al miracolo, qualcun altro alla truffa. È quel che succede quando scindi il culto dell’artista dall’esecuzione dal vivo

E alla fine nonostante tutti i meme Kanye West a Milano c’è stato. O almeno lo diamo per scontato anche se effettivamente il rapper di Chicago per i 60 minuti in cui è mostrato di fronte al pubblico estasiato del Forum di Assago per il listening party di Vultures 1 con Ty Dolla Sign non si è mai tolto la maschera, né ha fatto sentire la sua voce. Ma Kanye c’è stato, nelle movenze e nell’egomania, negli occhi dei suoi adoranti fan e come oggetto di un culto che ancora oggi dimostra di non avere rivali in quanto a cieca fede(ltà).

È stato un lungo viaggio quello intrapreso da Kanye per arrivare al suo primo grande evento italiano. Da figliol prodigo a autoproclamato Dio, da fedele figlio di Gesù a emblematica figura di culto, l’apparizione di Ye nel nostro Paese arriva nel momento più ambiguo della carriera del rapper. Un periodo in cui la musica è stata diluita in migliaia di gossip, dichiarazioni folli, prese di posizioni raccapriccianti che hanno trasformato il rapper più amato di sempre nel rapper più odiato di sempre. E così negli anni il suo pubblico si è polarizzato in maniera netta e definita: genio o imbroglione. È facile immaginare che il listening party di ieri sera non abbia fatto altro che consolidare il pensiero di queste due fazioni, ma limitarsi a tacciare questo evento come truffa o colpo di genio sarebbe un gesto di resa.

Un telo circolare appeso che ricorda la forma di una gabbia per uccelli su cui vengono proiettate le immagini in diretta di Kanye, Ty e dei loro ospiti. Un non-palco che occupa tutto il parterre del Forum. Un fascio di luce netto, della nebbia che si alza dalle macchine del fumo, le tracce di Vultures 1 sparate dall’impianto. In mezzo Kanye e Ty completamente coperti e mascherati (Ty ad un certo punto mostrerà il volto, al contrario del collega). Non ci sono microfoni, ma solo le tracce dell’album che escono dagli speaker. E poi gli ospiti – Playboi Carti, Quavo, Rich The Kid, Freddie Gibbs («gli Avengers del rap», dice un ragazzo seduto al mio fianco) – anche loro inizialmente coperti in volto, anche loro senza microfono. Un minimalismo pomposo, in pieno stile Kanye, dove l’unica cosa che conta è la presenza fisica, il corpo nello spazio, il qui che suona come un mai.

Ma facciamo un passo indietro: un listening party non è un concerto e non ha alcuna pretesa di esserlo. È un evento collettivo d’ascolto (anche se in questo specifico evento è particolare che si tratti di un album già pubblicato da diverse settimane), la trasposizione megalomane dell’amico che vuole farti sentire la sua nuova musica in macchina. Chi si aspettava di sentire Kanye al microfono, chi ha gridato allo scandalo, o alla truffa, probabilmente non era a conoscenza di una prassi che è oramai parte della carriera di Ye (da Yeezus in avanti) e che negli anni si è consolidata fino a momenti drammatici come la rappresentazione dell’incendio alla sua casa natale o la fittizia rappacificazione con Kim Kardashian durante i listening party di Donda.

Ieri a Milano non è successo nulla di tutto questo, nulla di drammatico. Il clima attorno a Vultures 1 – che tendiamo a dimenticarci non essere un disco di Kanye, ma un joint album con Ty Dolla – è quello della festa, della presa bene, di un certo scambio pubblico-artista solitamente raro nelle apparizioni del nostro. Per Kanye, oltre a tutto questo, sembra anche essere un modo disfunzionale (come quello di definirsi “per la gente” per la scelta di mantenere il merchadising online sotto i 20 euro quando poi i biglietti per l’ascolto erano a dir poco proibitivi, tutti ben sopra i 100 euro) di richiedere uno gesto d’affetto da quello che è rimasto del suo pubblico (il fatto che il palazzetto non fosse sold out la dice lunga sulla parabola discendente di questo divinismo) che in questi anni è stato lentamente allontanato da un processo di estrazione voluto dallo stesso rapper e che nella maschera, nella privazione totale della visione del suo volto e della sua persona, vede la propria definitiva messa in atto.

Eppure gran parte del pubblico, se escludiamo stampa, VIP e accrediti da fashion week, accetta totalmente le regole di questo culto. Nell’arena c’è una bella energia (soprattutto nei pezzi più riusciti di Vultures come Carnival, Good (Don’t Die), il brano ritirato per violazione del copyright, e l’inedito Everybody costruito attorno al sample omonimo dei Backstreet Boys) e nonostante l’impianto fatichi a consegnarci quell’alta fedeltà annunciata dalla locandina dell’evento, il solo essere nello stesso luogo del proprio mito a godersi la sua arte è una experience che per molti sembra valere il prezzo del biglietto. Anche perché quello che si fa per un’ora scarsa altro non è che star lì, con Kanye e Ty e i loro ospiti, a ballare il disco sul posto. Da vedere c’è poco e nulla.

Qualcosa nella musica è cambiato, forse per sempre. Il rap, così come l’elettronica, due universi che hanno molte più cose in comune quanto si possa immaginare, hanno lentamente allontanato l’esecuzione live – il suonare – dalla performance. E per paradosso questa scelta non ha portato a un disinnamoramento collettivo per la formula di questi live-non-live, bensì ha rinforzato l’idea di un’idolatria senza ratio pari a quella della mitologia del rock. Nell’EDM prima, e nella trap oggi, la presenza scenica e la performatività hanno sostituito la tecnica. Da una parte i producer che devono «solo schiacciare il tasto play», come cinicamente svelato da Deadmau5 (non a caso un altro artista mascherato), dall’altra artisti che si limitano a chiudere qualche barra su di una base dove è già presente la loro stessa voce perfettamente registrata in studio.

Il listening party di Kanye e Ty altro non è che l’esasperazione di questa idea. In un mondo che si dissolve nel digitale, Kanye porta sul palco l’unica cosa che non si può vendere online, la presenza fisica dell’artista nel qui e adesso. Questo frammento di tempo reale diventa così il momento in cui ai fedeli viene mostrata la reliquia (il disco? il corpo dell’artista?) a dimostrazione della santità del beato. E i fedeli, illuminati da questa Sindone uditiva, non possono che concedersi senza remore alla propria divinità mentre fuori dalle arene folle inferocite impugnano forconi e smartphone nel vano tentativo di scacciare il nuovo demonio del music business. Come sempre – nel bene e nel male – Kanye ci è arrivato prima di tutti.

In ultima, il listening party di Vultures è stata anche una gigantesca dimostrazione di potere, di black power. Quando l’all-star team composto Kanye, Ty, Playboi Carti, Quavo, Rich The Kid e Freddie Gibbs si presenta sul palco per la reprise di Carnival (nella serata verrà suonata ben quattro volte consacrandosi nuovo anthem della carriera di Ye) l’impatto è stato travolgente. Pur senza microfoni, la loro solo presenza è stato un racconto inedito per un Paese ancora molto poco abituato alla black culture e che sono negli ultimi anni, in grande ritardo rispetto ai paesi anglo e francofoni, ha iniziato ad ospitare con successo artisti urban black internazionali nelle programmazioni live.

Dicevamo: colpo di genio o farsa? Una domanda a cui sembra impossibile rispondere perché la verità potrebbe benissimo sedersi in entrambe le opinioni. Come sempre Kanye ha previsto qualcosa ma, come ultimamente accade, è qualcosa che non ci piace, che ci infastidisce, che ci reca frustrazione. Andare a vedere l’artista senza poterlo davvero vedere (la maschera), andare a sentire l’artista senza poterlo davvero sentire (l’assenza del microfono): mai l’artista è stato così idealmente vicino e così realmente lontano dai suoi fan, proprio come la divinità di un culto (o di una setta). Se l’artista è il presente, Kanye vuol continuare a essere il futuro. E mai come in questo periodo storico il futuro è un luogo dove non vorremmo mai arrivare.

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