Il concerto dei Cure è il manifesto dell’anti-Instagrammability | Rolling Stone Italia
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Il concerto dei Cure è il manifesto dell’anti-Instagrammability

Erodere la zona di comfort dello spettatore, invogliarlo a ritagliarsi tutto il tempo che serve, abituarlo a sonorità sfidanti e, infine, farlo esplodere di gioia con una serie di tormentoni da pelle d'oca: a Milano, Robert Smith e soci hanno dato vita al tuffo nel passato che non meritiamo, ma di cui abbiamo disperatamente bisogno

Il concerto dei Cure è il manifesto dell’anti-Instagrammability

Foto di Giuseppe Craca

I finlandesi utilizzano il termine kaukokaipuu per descrivere la nostalgia di un luogo che non abbiamo mai visitato ma che, in maniera un po’ inspiegabile, percepiamo come emozionalmente molto vicino. Ecco, nella congiuntura psicologica di chi scrive, durante il (bellissimo) concerto di ieri sera dei Cure a Milano, il sentimento dominante è stato più o meno quello; la performance di Smith, Gallup e soci sembrava voler rifuggire in ogni modo da uno spirito del tempo consacrato alla velocità di esecuzione e al presentismo stantio, facendo sfoggio di un sostrato disfunzionale, freak, controllato e un po’ primitivista che pareva balzato fuori da una DeLorean: il tuffo nel passato che non meritiamo, ma di cui abbiamo disperatamente bisogno.

Per la verità, anche il pubblico accorso al Forum sembrava caratterizzato da una naturale predisposizione alla “lentezza” (nel senso migliore del termine, chiariamoci). Un esempio su tutti? Nelle due ore e mezza (!) di live gli smartphone sono rimasti, nella grande maggioranza dei casi, a riposare nelle tasche: mancava del tutto quella nebulosa fluttuante di piccoli schermi illuminati che spezza la premessa scenica del buio, smorza gli applausi (per i quali, se siete abbastanza vecchi da ricordarlo, servirebbero entrambe le mani) e impedisce l’immediatezza della fruizione. Luddismo puro e semplice, magari da rileggere alla luce di contingenze prettamente anagrafiche?

Potrebbe essere, anche perché il crudo dato demografico giocherebbe in favore di questa interpretazione: se ve lo stavate chiedendo, sì, l’età media degli spettatori era abbastanza avanzata – nulla di strano, una band che ha vissuto il suo culmine tra gli anni ‘80 e ‘90 richiama un pubblico cresciuto tra gli anni ’80 e ‘90: è fisiologico.

E però, con il passare delle ore, ho iniziato a farmi un’altra idea: forse, i discepoli della band britannica sono giunti ad Assago con la consapevolezza di dovere rispondere a una chiamata un po’ ancestrale, allergica ai ritmi fulminei e solleciti che informano un contemporaneo sempre più schizofrenico e inafferrabile. In un contesto del genere, non c’è spiraglio per postaggio acchiappacuoricini, stories affettate e selfie artefatti: risulterebbero quasi dissacranti.

Del resto, la musica dei Cure (anche se le deroghe a questo assioma sono tante, ma ci arriveremo tra poco) potrebbe essere riletta come una sorta di manifesto inconsapevole dell’anti–instagrammability che disconosce concetti come velocità d’esecuzione, orecchiabilità e visual appeling.

Tutto il contrario: il territorio naturale dei Cure è quello della stasi, della nobilitazione del concetto di tempo morto, di un’attesa che non deve essere mai intesa come sopportazione o rito di passaggio obbligato, ma come parte integrante di una proposta artistica che pretende il suo tempo. Ce lo hanno dimostrato già a partire dalla scelta della setlist: percorrere la scorciatoia dei tormentoni, aprire le danze urlando a squarciagola «I would say I’m sorry If I thought that it would change your mind», avrebbe pagato di più in termini di dividendo emotivo, rischiando però di sconfessare il senso dell’intera performance.

Erodere la zona di comfort dello spettatore, invogliarlo a ritagliarsi tutto il tempo che serve per elaborare un certo tipo di sottotesto, abituarlo a sonorità scomode, sono sfide decisamente più stimolanti: non a caso, ad aprire le danze è Alone, un inedito sconosciuto a tre quarti della platea dalle sonorità difficili e sfidanti che dovrebbe finire nel prossimo album, Songs of the lost World, quello che attendiamo, ormai, da quattordici, lunghissimi, anni.

Per correggere parzialmente il tiro, Smith gioca subito un asso pesantissimo come Pictures of you. Forse questa scelta ha avuto un significato ben preciso, agendo da calmante per gli ascoltatori meno esperti e impazienti: in quel momento, ha soddisfatto la clausola fondamentale del contratto non scritto siglato con il pubblico – pardon – “occasionale”, quello accorso al palazzetto per ascoltare Friday I’m in love e Lullaby, per intenderci; il sottotesto era qualcosa come «Tranquilli, il vostro momento arriverà».

Non a caso da lì in poi, per un’oretta abbondante, le concessioni all’orecchio sono state pochissime: con l’eccezione di classiconi come Lovesong, A Forest e From The Edge of the Deep Green Sea, i Cure hanno pescato nei cassetti più reconditi della loro discografia. Basti pensare all’opzione in favore di una chicca come Charlotte sometimes e alla scelta di presentare un altro inedito (A Fragile Thing) mantenendo fede a una liturgia ormai consolidata durante questo tour europeo – a Stoccolma, un mese fa, avevano fatto ascoltare per la prima volta And nothing is forever, mentre a Cracovia, lo scorso 23 ottobre, hanno eseguito I could never say goodbye. L’estasi collettiva come da previsioni (se nei giorni scorsi avete sbirciato i video integrali dei live di Bologna e Firenze, be’, già sapete) è arrivata nel set finale, quello dei bis. E fidatevi: pur di godere di un’esplosione del genere attendere non è soltanto giusto, ma necessario.

Mettere in fila I Can Never Say Goodbye, The Figurehead, Faith, Disintegration, Lullaby, The Walk, Friday I’m in Love, Close to Me, In Between Days, Just Like Heaven e Boys Don’t Cry è stata una scelta felicissima che ha accontentato tutti, esperti e avventori di passaggio, ribadendo che i Cure non sono soltanto un monumento alla lentezza e alla riflessione in un’epoca consacrata alla velocità e alla demonizzazione dei tempi morti: quando mutano pelle e accarezzano la loro seconda anima, quella più pop e scanzonata, sono garanzia di divertimento e di una leggerezza intrinsecamente intergenerazionale (l’arpeggino di Friday I’m In Love ha il superpotere di far ballare chiunque, dalla quota boomer dominante a quella giovanissima, minoritaria ma presente).

Una menzione d’onore, poi, spetta a un Robert Smith più solenne e amorevole che mai, fantasmatico nei suoi capelli tinti di nero, volutamente eccessivo in quel rossetto acceso così retrò, gentilissimo nel concedersi al pubblico nel finale di un concerto memorabile: parliamo di un professionista di caratura altissima, impeccabile tanto dal punto di vista vocale quanto sotto il profilo iconografico, un veterano con la testa sulle nuvole che indossa i suoi sessantatré anni con un’eleganza encomiabile, che fa dei chili di troppo una cifra particolare, distintiva e meravigliosa, trasformandosi in un (ignaro) nume tutelare body positivity. Pur all’interno del suo tenero, goffo e studiatissimo immobilismo, il mattatore assoluto della serata di Assago è stato lui: ha dato sostanza all’atmosfera kaukokaipuu cui accennavamo in apertura, rievocando i fasti di un’epoca gioiosa che continuiamo a celebrare nei film, nelle serie, nei libri e nei discorsi di ogni giorno ma che, ai tempi della tensione da content, dell’Internet Addiction Disorder e della competizione ossessiva per accaparrarsi i (pochi) secondi di attenzione dello spettatore medio, nessuno ricorda di aver mai vissuto nella realtà. Chissà se quel decennio di stile, colori e silhouette audaci è esistito davvero. In attesa di scoprirlo, per favore: riportateci a ieri sera, ne abbiamo bisogno.

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