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Il concerto dei Bon Iver è stato un miracolo a Milano

Dedizione, spiritualità, talento e una straordinaria capacità di stupire e commuovere fino a fare male. Justin Vernon e la sua band hanno trasformato il Forum di Assago in una piazza dei miracoli

Foto: Francesco Prandoni

Ognuno di noi è tante persone differenti: nel mio caso, un aspirante musicista, uno che scrive di musica, un appassionato di concerti e di strumenti, ma anche un essere umano con punti di forza e fragilità, amori, amicizie, ricordi e e preoccupazioni. E, non in ultimo, un fan di vecchia data della band di Justin Vernon. Ieri, al Forum di Assago, tutte queste persone si sono inspiegabilmente allineate per la prima volta, trovandosi concordi nel dichiarare di aver assistito ad un miracolo: il concerto dei Bon Iver.

In un sabato qualunque di novembre, sul palco del Forum si sono presentati sei polistrumentisti ineccepibili, ognuno dei quali ha gestito almeno tre strumenti differenti, oltre la propria voce. Tra gli strumenti: campionatori, sassofoni, sintetizzatori di ogni tipo, vocoder e altri giocattoli per voce, oltre ovviamente a chitarre, pianoforti, bassi e batterie (al plurale, perché i batteristi erano ben due). Con ogni probabilità nessun suono, nessun campione, nessuna voce era programmata in base. Chi conosce in particolare gli ultimi due dischi dei Bon Iver (22, A Million e i,i) provi a immaginare cosa voglia dire suonarli interamente dal vivo, gestendo ogni singolo suono in diretta. É un lavoro titanico, che richiede una decisa preparazione, dedizione ed elasticità mentale.

Non fosse sufficiente, molti dei brani sono stati riarrangiati per l’occasione: in alcuni casi sono stati semplicemente rinforzati per adattarli al contesto live, in altri invece hanno tradito un approccio tipico delle jam in sala prove. Un esempio lampante è il lavoro fatto su Salem, tratto da i,i, in cui i musicisti, dopo l’esecuzione del brano in una versione abbastanza fedele all’originale, si sono gradualmente lasciati trasportare in una coda strumentale che, di giro in giro, è sembrata assomigliare sempre di più a un qualcosa che potrebbe collocarsi dalle parti dei Dire Straits, con Vernon che si è lanciato in un solo di chitarra improvvisato di oltre un minuto: molto probabilmente durante le prove del tour è capitato che i musicisti, per gioco, decidessero di continuare a suonare anche a brano finito, trovandosi tra le mani una coda pensata innanzitutto per il piacere di essere suonata. E per il piacere del pubblico di ascoltarla, perché divertissement come questo aiutano ad alleggerire l’impeccabilità dello spettacolo.

I sei artisti sul palco, in ogni brano, sono riusciti a sfumare e ad alleggerire la precisione chirurgica dell’esecuzione con una coltre di calore, naturalezza e umanità capace di empatizzare con la sfera emotiva del pubblico. Un’esperienza emotivamente appagante: c’è da piangere e da rimanerne estasiati. Si piange privatamente, si abbracciano i vicini di posto e, allo stesso tempo, si resta rapiti dall’armonia di suoni stravaganti, distensioni, aperture ed esplosioni che si intrecciano e si inseguono durante le quasi due ore di show.

La scaletta inoltre non è stata pensata con obiettivi particolari, ma è deresponsabilizzata dal compito di creare un qualche tipo di dinamica macro-strutturale, tanto da non tener conto più di tanto dei meccanismi tipici del fan-service, se si esclude l’inevitabilità dell’esecuzione di Skinny Love, Holocene e Blood Bank, classici del periodo più tradizionalmente indie folk rock di Justin Vermon che lo hanno consacrato anzitutto come cantautore, prima della sua fase più rivoluzionaria e sperimentale. Il concerto è stato un flusso continuo, cominciato con 22 (OVER S∞∞N), l’apertura di 22, A Million e terminato due ore dopo con RABi, canzone conclusiva di i,i in un simbolico percorso sonora che si è concentrato principalmente su questi ultimi due dischi del progetto.

Foto: Francesco Prandoni

Mi è capitato spesso di interrogarmi sull’espressione “fine a sé stesso”, facendo sempre fatica a capire come si sia arrivati a considerare questo concetto come un qualcosa di negativo: essere fini a sé stessi significa di fatto che il fine ultimo dell’esistenza di una cosa è il fatto stesso che esista. É una forma di autosufficienza e di auto-esegesi. Se esiste Dio, ad esempio, di sicuro è fine a sé stesso. Non essendo pratico di teologia, però, mi limiterò a dire che il concerto dei Bon Iver è stato un buon pretesto per provare a riabilitare questa espressione. Il concerto è stato – di per sé – fine a sé stesso: si spiegava, si motivava e mostrava il suo senso costantemente in autonomia, di passaggio in passaggio. L’interazione con il pubblico da parte della band si è infatti limitata al saluto iniziale, all’inchino pre-encore e ai ringraziamenti finali. L’unica frase non cantata ad essere uscita dalla bocca di Justin Vernon è stata un semplice: «Thank you, spread love».

Nessuna interazione se non l’alchimia e la spiritualità che hanno accomunato i presenti e i sei musicisti sul palco. Più che spettatori, adepti; più che musicisti, sacerdoti. Se ripenso alla scaletta però mi accorgo che le mie aspettative sono state completamente deluse: nei tre anni trascorsi in possesso del biglietto ho immaginato migliaia di volte il momento in cui avrei sentito dal vivo 29 #STRAFFORD APTS e 715 CREEKS, i due brani che ho più ascoltato da quando conosco i Bon Iver. Non hanno suonato né una, né l’altra, ma l’esperienza è stata così intensa da farmene rendere conto solo a concerto finito.

Certo, come tutti i miracoli terreni, qualche difetto lo ha avuto anche questo show, penso ad esempio all’utilizzo delle luci a tratti troppo aggressivo e, a volte, trito nelle suggestioni. Un’altra problematica inaspettata è invece strettamente legata ai brani stessi dei Bon Iver, soprattutto quelli degli ultimi due dischi, che non sono semplicissimi da memorizzare, soprattutto per quanto riguarda pause, silenzi e stacchi. In alcune occasioni il pubblico ha forse mal interpretato i momenti, lanciando ovazioni in contesti poco opportuni, con una particolare ossessione per i momenti a cappella in cui in realtà si poteva apprezzare al massimo la bellezza delle sei voci intrecciate.

Il concerto dei Bon Iver resta comunque un miracolo. Lo è stato per stratificazione, dedizione, spiritualità, talento, e per la straordinaria capacità di stupire e commuovere fino a fare male. Nemmeno questi piccoli appunti critici sono in grado di togliere lucentezza dal miracolo: it might be over soon, ma intanto siamo qui, e la vita è fatta per essere riempita di esperienze come questa.

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