Il concerto degli Oasis a Cardiff raccontato da Valerio Lundini | Rolling Stone Italia
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Il concerto degli Oasis a Cardiff raccontato da Valerio Lundini

Il più grande fan dei fratelli Gallagher in Italia è andato in missione nel Regno Unito per riferirci cos'è successo nell'attesissima prima data del tour di reunion

Il concerto degli Oasis a Cardiff raccontato da Valerio Lundini

Valerio Lundini al concerto degli Oasis a Cardiff

Foto: Dei signori inglesi gentili

Andare al cinema, leggere libri, farsi visitare da un medico, avere rapporti (passatemi il termine) sessuali o consultare un dizionario: queste sono solo alcune delle azioni che l’uomo ha ormai delegato al web. Ma alcune abitudini resistono. Tra queste: mangiare, strofinare i piedi delle statue dei santi… e andare in massa ai concerti!

Oggi sembrerebbe che qualsiasi artista, tranne forse Junior Cally e Leda Battisti, possa riempire tranquillamente uno o due stadi. Ma ecco cosa accade quando torna assieme la band che, nel ’96, ci ha messo meno di 24 ore a riempire due volte Knewborth Park. La reunion degli Oasis ha venduto, per il solo tour inglese, più di 1,4 milioni di biglietti. Per darvi un’idea di che cifra sia vi basti pensare che 10 anni fa con la mia band suonammo in un pub di Rieti dove il gestore si disse più che soddisfatto perché c’erano 40 persone.

La prima data si è tenuta ieri sera a Cardiff (una città meno famosa di Londra) ed era l’evento più atteso negli ultimi 311 giorni per moltissimi fan della band mancuniana ma soprattutto per me. Io ieri sera ero lì, quindi consentitemi di passare ad un presente storico che mi funziona meglio per parlare del concerto.

Il Principality Stadium di Cardiff, come d’altronde tutta la città in questi giorni, è gremito di madferit: sono tutti principalmente uomini con i calzoncini corti, paonazzi e conciati come dei cosplayer di entrambi i fratelli. Sono tipi con cui non vorresti mai litigare perché sono grossi, ma con cui non vorresti neanche fare la pace perché sono sudati e non vorresti abbracciarli. Il mio timore più grande è quello di essere colpito da un bicchiere colmo di urina. È una paura che ho da sempre, ma i veterani dei live inglesi mi hanno spiegato che qui è un’usanza. Negli ultimi 311 giorni ho pregato che fosse solo una leggenda e devo dire che è andata bene.

La prima band di apertura sono i Cast: molto bravi, ma confesso che mentre suonano, io ancora sono al bar a prendere l’acqua e la Pepsi. Qui sono più intelligenti rispetto all’Italia. Da noi ai concerti ti danno la bottiglia senza il tappo perché hanno paura che la lanci in faccia a Brunori Sas, qui hanno lo stesso timore ma ti danno un bicchiere col coperchio, così almeno puoi tenerla da parte. Per quanto riguarda la bevanda sono contento di non aver preso la Coca Cola sia perché la sto boicottando (finanziano i cattivi), sia perché anche Noel la boicotta dagli anni ’90 quando fu accusato di plagio del brano I’d Like To Teach The World To Sing (in Perfect Harmony) che effettivamente è uguale alla sua Shakermaker, magari è stato lui a chiedere di non venderla durante lo show, come fa Morrissey coi panini con la bresaola.

A fare l’opening act migliore che potesse esserci arriva Richard Ashcroft, ex frontman dei Verve. Esegue gran parte dei brani del suo disco più bello: Urban Hymns, del 1997. È a lui che Noel dedicò il brano Cast No Shadow. Richard sembra non essere mai invecchiato dall’epoca, complici forse gli occhialoni da sole e il fatto che da giovane già sembrava più grande a causa della (non consigliata) droga. Chiude il suo set con Bittersweet Symphony e se un alieno entrasse ora in questo stadio penserebbe che quello tranquillamente è un suo concerto.

C’è qualche minuto di attesa. Ad un certo punto riesco a vedere dalla passerella che porta al palco, Paul Arthur, alias Bonehead, il primo chitarrista degli Oasis, membro fondatore da quando con Liam si chiamavano i Rain. Mi basta aver visto lui per essere felice, ma subito dopo vedo entrambi i fratelli Gallagher che salutano quei pochi del pubblico che li riescono a vedere prima che salgano sul palco. Sembrano due persone normali, serene con sé stesse, ci salutano. Si percepisce che sono emozionati anche loro (che notoriamente non vengono associati a nessun tipo di emozione così frivola). Parte, registrata, Fuckin’ in The Bushes, una strumentale che gli Oasis hanno usato dal 2000 per iniziare i loro live. Sui maxi schermi campeggiano delle scritte che ci ricordano che non è un’esercitazione ma che sta succedendo, sono tornati gli Oasis. La folla impazzisce, è il momento che più attendevo ma anche che più temevo, dalle ultime file dello stadio, un uomo lancia a tutta forza un bicchiere colmo di un liquido che potrebbe tranquillamente essere sidro.

Gli Oasis iniziano a cantare Hello (che in inglese mi pare significhi “Ciao”), la canzone è quella che immaginavo avrebbero usato come apertura e nell’unico ritornello ribadisce più volte che “è bello essere tornati”. Sembrerebbe che Noel l’abbia scritta nel 1995 appositamente per poterla eseguire 30 anni dopo e dire “Vabbè, con questa ci apriamo il concerto della reunion, mi pare precisa”. Il secondo brano è Acquiesce, una b-side, una di quelle canzoni che si mettevano nei cd singoli per non fare brutta figura. Le altre band mettevano delle versioni live o, peggio ancora, dei remix. Gli Oasis invece per fare i lati b tiravano fuori capolavori come questo brano dove la strofa viene cantata da Liam e il ritornello da Noel. Quando sognavo la reunion, sognavo questa canzone.

Seguono Morning Glory, Some Might Say, Bring It On Down: anche qui mi trovo a cantare muovendo le braccia e indicando il palco (una cosa che faccio più tranquillamente quando sto all’estero perché non mi conosce nessuno e non mi sento stupido; è un po’ tipo ballare). Il pubblico ancora non crede a quel che sta vedendo, alcuni fanno dei video coi cellulari ma neanche così tanti come avevamo tutti temuto. Probabilmente è una questione anagrafica. Questo spettacolo può essere visto come si faceva una volta, non attraverso i monitor dei tanti telefoni, ma attraverso i maxi schermi ai lati del palco.

Liam chiede al pubblico di voltarsi dando le spalle al palco, dice qualcosa che non capisco perché, seppure io abbia imparato l’inglese tramite le loro canzoni, non ho mai capito una parola delle loro frasi non cantate. Insomma, credo volesse creare una qualche coreografia col pubblico di spalle, poi inizia Cigarettes And Alcohol, tutti saltano, tutti cantano e quella coreografia non s’è più capito cosa dovesse essere. Ad ogni modo, dal 1994 ad oggi, questo momento rimane la trovata più originale e sconvolgente mai fatta in un live degli Oasis.

L’attesa reunion tra Valerio Lundini e Liam Gallagher

Inaspettatamente giunge un’altra b-side: Fade Away. Scorgo Noel commuoversi ma magari aveva la luce in faccia, sul ledwall si alternano foto vecchie che mettono un po’ di malinconia (ma magari è una cosa mia). Segue Supersonic e Roll With It. Quest’ultima era la canzone che, con Country House dei Blur, determinò la faida del brit-pop nel ’95. Ancora oggi quando si parla degli Oasis con qualcuno che non capisce niente, questi sente il dovere di dirti “eh eh, io sono sempre stato più team Blur”, come se qualcuno gli avesse parlato di team o preferenze. Lo stesso Noel recentemente ha liquidato la storia dicendo che fondamentalmente erano entrambe brutte canzoni. Genio (anche se non è vero, ha fatto bene a dire così).

Sentire canzoni come Roll With It, suonate da entrambi i fratelli, e con Noel che fa la seconda voce, per me è una cosa fondamentale. Sin da quando ero piccolo, ho sempre cantato i brani degli Oasis intonando le linee melodiche della voce del fratello grande. Forse perché la prima volta che sentii un loro concerto fu l’MTV Unplugged del 1995 dove Liam non si presentò e toccò a Noel cantare tutta la scaletta.

E infatti, finita Roll With It, Noel rimane da solo sul palco per fare il suo set. Comincia con Talk Tonight (un’altra b-side con la quale altri complessi dell’epoca ci avrebbero fatto il singolo d’apertura del loro disco di punta). È lievemente ri-arrangiata, non di troppo eh. Ma un po’ più elettrica rispetto all’originale. Stravolgere i brani per i live è un po’ come i tentativi di coreografia di cui sopra, non è una cosa per la quale i Gallagher smaniano. Noel poi esegue un’altra b-side che da sempre canta anche col progetto solista: Half The World Away. In quest’occasione sale sul palco anche una sezione di fiati (non credo abbiano problemi a pagare l’albergo a questi tre signori visto quanto costano le maglie del merchandising che hanno venduto a tutti i polli come me). Il brano è nato perché all’epoca Noel ricalcò il giro d’accordi di This Guy Is in Love With You del compianto Burt Bacharach. Non voglio fare quello che, una volta ottenuta la reunion degli Oasis, si mette già a dire “eh, ma quando c’erano i progetti solisti…”, però un po’ lo faccio. Noel, con l’avanzare dell’età, si stava avvicinando sempre più allo stile armonico di Bacharach e l’ultimo suo album Council Skies ne era una bella prova. Spero continui così. Half The World Away è un capolavoro ed è sempre bello sentire il pubblico che batte le mani a tempo.

Noel chiude il suo set con Little By Little, primo brano della serata uscito dopo il 1995. Questo per l’esattezza è del 2002. Lo sentii la prima volta proprio in un loro concerto del 2002 al Vox Club di Nonantola in provincia di Modena. All’epoca il brano ancora non era uscito ma il pubblico lo conosceva già perché se l’erano scaricato da internet, ‘sti farabutti. Io invece sono venuto alla prima data della reunion proprio per non avere le anticipazioni neanche della scaletta (cosa che mi avrebbe reso più comodo scrivere questa recensione facendola fare il giorno prima a ChatGPT).

Liam torna sul palco e la band tira fuori due singoli del 1997: D’You Know What I Mean e Stand By Me. Durante la prima sul ledwall ci sono dei fumogeni (non so perché, ma erano fichi), durante la seconda varie foto di coppie e famiglie degli anni ’50. Mi ricordano quella foto sulla copertina del singolo di Stand By Me, una coppia di innamorati degli anni ’60: i genitori dell’ex fidanzata del fotografo che faceva le copertine degli Oasis. Una storia che mi è sempre piaciuta, ed evidentemente anche a chi ha fatto i visual. Questi due brani sono spesso stati snobbati dalla band perché Noel dice che Be Here Now (l’album dal quale sono tratti) è il loro peggior lavoro. Peccato che invece sia un capolavoro ed è il primo cd che io abbia mai acquistato con i miei soldi: 29 mila e 900 lire all’epoca. Oggi qui a Cardiff non ci compro neanche il nastro adesivo brandizzato Oasis (sì, lo vendono. Terribile).

È passato un po’ di tempo dall’inizio del concerto, qualcuno viene portato via dalla barella, forse per il caldo, forse per l’alcol, vedo il bicchiere colmo di sidro che cade finalmente a terra accanto ad uno nelle prime file. Penso a che rogna esser portati via in barella per un concerto che è costato così tanti soldi. Liam ironizza anche su questa faccenda dicendo qualcosa tipo “È valsa la pena spendere 4000 sterline per essere qui?”. Ma non ci metto la mano sul fuoco che abbia detto così: ci sono delle interviste agli abitanti di Ottaviano che ricordano il boss Raffaele Cutolo in cui è molto più facile capire cosa dicano senza i sottotitoli.

Su Cast No Shadow ho finalmente i tanto agognati brividi che non avevo dall’ultima volta che le voci dei Gallagher non si incrociavano nel ritornello quando dicono “Bound with all the weight of all the words he tried to say”. Stupendo, vabbè, ripenso a quelli che dicono “team Blur”. E dai.

È il momento di Slide Away, è un capolavoro, ma purtroppo mi tocca andare al bagno. Ai concerti degli Oasis è come alle partite di calcio, la gente usa i cessi a muro anche quando sono liberi e disponibili i wc a pavimento. La cosa buona è che, nonostante mi sia perso un minuto di Slide Away, ho trovato a terra un paio di occhiali da sole che mi sono bellamente messo in tasca (ancora devo sanificarli).

Il concerto è quasi finito. È il momento di Whatever, canzone stupenda ma di cui mi scordo sempre l’esistenza perché la fecero uscire tra il primo e il secondo disco quindi la vedo un po’ come una canzone apolide. Capite? È apolide.

Il penultimo brano è Live Forever che i Gallagher dedicano al calciatore Diogo Jota, morto l’altro ieri per un incidente stradale e infine chiudono con Rock’n’Roll Star. Sullo schermo è un florilegio di immagini di anni che io credevo essere ancora vicini mentre no, non lo sono più. Tra le varie foto, ritagli di locandine, copertine di dischi rari e foto d’epoca si vedono anche alcuni vecchi membri della band tra cui il primissimo batterista Tony McCarroll (oggi completamente pelato).

Il concerto è finito ma chiunque conosca un minimo il mondo sa che ci sarà il bis, o come viene più correttamente definito, l’encore. Torna Noel che presenta tutti i musicisti (una cosa che non mi pare fosse tanto solito fare in passato). Tra costoro il nuovo batterista Joey Waronker, il bassista Andy Bell (che tra le altre cose è il leader dei Ride), la leggenda Paul Arthur Bonehead e Gem Archer (che per un periodo suonò nei Beady Eye di Liam, per poi finire anni dopo con gli High Flying Birds di Noel). Prima di suonare The Masterplan con i fiati che lo accompagnavano prima, Noel saluta tutti i ventenni che non sono mai riusciti a vedere gli Oasis, sembra quasi che gli dispiaccia pure a lui di non aver suonato tutti questi anni. Ma non voglio romanticizzare niente. Infine chiudono con Don’t Look Back In Anger e Wonderwall, due canzoni carine.

Il concerto è piaciuto decisamente a tutti i loro fan e a entrambe le loro fan presenti, stasera tornerò alla seconda data con buona pace di chi non ha trovato i biglietti. Fidatevi che me lo merito, è l’unica band di cui ho competenza. Ma so che la data più importante era quella di ieri. Per qualche secondo è sembrato esserci un momento in cui erano più emozionati loro del pubblico. Qualcuno scherza dicendo “chissà quanto ci mettono a litigare di nuovo”, ma forse chi lo dice è più affezionato alla narrazione esterna che si vuole creare attorno alle rock band rispetto a ciò che queste cose rappresentano effettivamente. Sono due signori che suonano canzoni che fecero quando erano più giovani. Gran parte dei presenti al concerto erano ragazzi che ormai sono grandi, hanno ancora i capelli con cui cercano pateticamente di imitare quelli dei loro idoli, sperano di tornare adolescenti sentendo le canzoni di quando andavano a scuola o all’università, di quando la loro nonna era ancora viva, di quando i genitori non erano anziani, di quando l’impegno più pesante erano i compiti o gli esami. Ma sono solo canzoni e le operazioni nostalgia danno solo l’illusione che tutto possa tornare com’era prima. Ma poi il concerto finisce, apri il cellulare e ci sono le solite cacate del 2025, la guerra, i pazzi, i video delle pompe di benzina che esplodono, il clima che impazzisce, la guerra di nuovo, la musica pop che fa schifo.

Allora spegni il cellulare ma dal riflesso vedi che sei più vecchio rispetto a quando era uscito (What’s The Story?) Morning Glory. Ma non è un dramma. Alla fine la vita va avanti, speriamo che stasera facciano Round Are Way, mi avevano detto che l’avrebbero fatta. Hanno pure quelli con le trombe che ci stanno bene.