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Ieri sera Venerus ci ha fatto capire che dobbiamo re-imparare ad ascoltare la musica

Un palco ispirato a quelli di Don Cherry, canzoni liberate da computer, sequenze e strutture rigide, la performance come viaggio e teatro: la 'Magica Musica' è tornata e noi c'eravamo

Foto: Alessandro Bosio

La palazzina di caccia di Stupinigi è una struttura settecentesca progettata da Filippo Juvarra per la famiglia Savoia. Un luogo visivamente meraviglioso, esteticamente struggente, specialmente se è da qui che riparte la tua carriera live dopo un lungo periodo di silenzio coatto. Venerus fischietta per i camerini, si muove velocemente tra le gli spazi infiniti di questo luogo come fosse a casa. È scalzo. «Ritornare sul palco? Mi sembra quasi di introdurre qualcosa di nuovo nella mia vita dopo un anno e mezzo passato a cercare di trovare l’equilibrio mentale per una vita senza concerti», ci racconta nei camerini imperiali della palazzina. Mentre parliamo il suo sguardo vaga nella stanza, parla di fretta e con voce stretta come sempre, ma stavolta in quel suono si può percepire l’emozione del ritorno. Dentro un orecchio scorgo un tatuaggio di una nota musicale. «Provo stupore ed emozione, fare musica è una mia funzione primaria», sorride, «sai, da qualche tempo mi sento in missione per la musica».

Quando l’impianto si accende, le luci di scena sono ancora flebili in confronto ai colori del tramonto, quasi fossero state colte impreparate. Le nuove architetture adibite per i concerti a sedere straniano il pubblico che si muove incerto alla ricerca del proprio posto, inibito da distanze, obbligazioni, limitazioni. La regalità del luogo induce una certa riverenza iniziale. Per molti, probabilmente, è il primo vero concerto dopo le riaperture e si percepisce un certo senso di smarrimento, di disorientamento. Non è scontato ritornare ad ascoltare, a vedere, a partecipare a un rituale collettivo con una riprogrammazione così rigida degli spazi e la sicurezza così presente a farli rispettare. Questo vale, allo stesso modo, per coloro che sopra il palco ci stanno e, in pochi secondi, devono dimenticare la ruggine di una stagione concertistica cancellata. Non è quindi un caso che i primi due pezzi suonano evidentemente strani, scollati, sbilanciati. Qualcosa non va. Tra il cicaleggio del pubblico e gli sforzi d’ambientazione dei musicisti, qualcosa proprio non torna. La band parte così a suonare Appartamento, ma Venerus è un pesce e la voce non arriva. Il microfono non funziona più. C’è un problema. C’è un errore. Il fonico non riesce a recuperare in tempo. Aspettate. Fermi tutti. Silenzio.

Un errore. Uno sbaglio umano. Un momento di imbarazzo. Oddio, ecco cosa ci mancava! Per un anno e mezzo abbiamo parlato di quanto sentissimo nostalgia della magia dei concerti. Ma cos’era questa magia di cui parlavamo? Cos’era questa magica musica live che tanto ci mancava? Ecco; niente più che l’errore, lo sbaglio, il problema tecnico. La percezione che l’essere umano sia qualcosa di magnificamente fragile e sensibile al di fuori dall’algoritmo. L’imperfezione visibile e sensibile. La magia non è altrove, non è laggiù, non è uno spazio che dobbiamo immaginare. La magia è qui, ora, tra noi, o meglio, in noi, nei nostri gesti, nei nostri riti, nella nostra partecipazione. Negli errori. Così Venerus scherza, il pubblico ride, e tutto si scioglie. Si riparte, e siamo di nuovo tutti qui, assieme un anno e mezzo dopo. La musica suona. Esplosione.

Foto: Alessandro Bosio

«ll mio interesse è mettere me e i miei musicisti al servizio delle persone per creare delle esperienze attraverso la musica. Come fosse una terapia. Per questi live invito il pubblico a non sentirsi giudicato, a sentirsi libero. La musica può fare del bene». Il concerto di Venerus scorre in una overdose di stimoli nelle sue due ore di musica suonata, anzi, suonatissima. Cinque strumentisti e un ospite (il maestro di piano dello stesso Venerus), strumenti presi, ripresi, rigirati. I brani di Magica Musica vengono bombardati di nuovi input, diluendosi fluidamente, spogliandosi delle strutture canoniche. «Volevo ci fosse tanta musica strumentale, tanto jazz. Ho cercato di iniettare tutto questo nelle mie canzoni. Ma per inserire altra musica nella mia musica ho capito che dovevo creare spazio. Abbiamo tolto computer, sequenze, metronomo. Abbiamo abolito le strutture rigide, ciò che ingabbiava le canzoni. Decostruendo, abbiamo trovato lo spazio che ci serviva».

Venerus è un «bambino a cui hanno dato le chiavi di Disneyland e han detto “fai ciò che vuoi”» e lo si percepisce dalla quantità di cose presenti sul palco: strumenti (come un bellissimo pianoforte a coda colorato che farebbe la sua bella figura nell’ultimo tour di Elton John), piante, tappeti. «Per l’estetica del live mi sono ispirato a Don Cherry, un musicista jazz degli anni ’60/’70. Lui sul palco metteva questi drappi creati dall’artista Moki Cherry, sua moglie: un immaginario fantastico. Io ho voluto che il palco mi fosse familiare, per questo c’è un certo tono fiabesco».

Venerus stesso sembra giungere da una performance di Kabuki, mascherato di cerone in un abito che richiama le fantasie celestiali del pianoforte. «Mi piace giocare su di me, trasformarmi in un simbolo. Potrei non farlo, ma ne sento la necessità. Caricando la mia figura di un immaginario che esce dallo stretto immaginario, aiuto le persone ad entrare nel viaggio. Le accompagno. È come nei romanzi, nelle fiabe, nel teatro. Penso ai boschi notturni e alla figura dell’uomo mezzo asino di Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare. Dentro i simboli ci sono i messaggi. E questo aiuta il pubblico a ricordare le emozioni che si vivono durante il concerto. Se fossi neutro, lascerei qualcosa in meno».

Foto: Alessandro Bosio

Il live scorre in variazioni dinamiche ampie, cercando di scavare nella palette emotiva del pubblico, dai momenti più intesi a quelli più liberatori. A dispetto del canonico live italiano, la voce perde il suo ruolo centrale a favore della coralità della performance strumentale, lasciando al pubblico possibilità di ascolto e godimento. «La magia capita ovunque, non cambia se sei seduto o in piedi. In Italia i live sono molto cantati, sono spesso live-karaoke. Questa situazione invece può essere un’occasione per la gente di ascoltare di più. Da seduto sei un po’ inibito sul canto e probabilmente strilli meno. Così però hai la possibilità di notare altre cose oltre la voce. Puoi scoprire che c’è tutta una musica sotto, capire chi suona, cosa suona, come suona. Osservare è importante».

Se questa è la lezione che possiamo imparare da questo periodo di assestamento, da questa costrizione al sedersi, allora ben venga davvero. Re-imparare ad ascoltare la musica nella sua totalità è in fondo il regalo migliore che possiamo ricevere da un concerto.

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