Idles, la recensione del concerto all'Alcatraz di Milano | Rolling Stone Italia
Can they get a hallelujah?

Ieri sera gli Idles ci hanno pestati e abbracciati

Il pogo e il senso di comunità come atti di resistenza. Quello all’Alcatraz di Milano è stato un concerto di «martelli e sorrisi», come dice Joe Talbot, ma anche di canzoni più melodiche e condivisione delle proprie fragilità. E che botta la musica: è già uno dei live dell’anno?

Ieri sera gli Idles ci hanno pestati e abbracciati

Joe Talbot degli Idles all’Alcatraz di Milano

Foto: Sergione Infuso/Corbis via Getty Images

Che dire di una band che riempie l’Alcatraz di testosterone (a colpo d’occhio, il 90% del pubblico è al maschile) e fa urlare a tutti quanti che “la maschera della mascolinità è una maschera che mi indossa”? Gli Idles arrivano a Milano nell’unica data italiana del tour di presentazione del freschissimo Tangk, uscito lo scorso 16 febbraio, e regalano due ore di totale apnea in cui strapazzano i 3000 presenti con il wall of sound più potente dell’alternative rock europeo. Un concerto in cui le chiacchiere stanno a zero – i pochi interventi parlati di Joe Talbot sono dedicati al sostegno della causa palestinese e a piccole direttive su come organizzare il pogo – e in cui il quintetto sembra essere in splendida forma.

Il live inizia con un dittico curioso: Idea 01, primo pezzo di Tangk, viene collegato a Colossus, che apre a sua volta di Joy as an Act of Resistance, secondo album del quintetto pubblicato nel 2018, sfruttando l’accentazione simile dei due brani. Dopodiché, da Gift Horse in poi, Talbot e compagni mettono subito in chiaro le cose, si invita la folla a dividersi a metà e al segnale si fa quello che si è sempre fatto ai live degli Idles: si scatena l’inferno.

Si comincia così con stage diving, pogo, lanci di vestiti e oggetti, finte impiccagioni con cavi di chitarra e altre storie di ordinaria follia. Soliti Idles, all’apparenza. Non fosse che questo tour sembra dirci qualcosa in più. Nell’archivio ormai sterminato di recensioni dedicate all’attività della band nel corso degli anni si riprende più o meno ovunque la fortunata espressione con cui Talbot aveva definito la musica degli Idles nel 2020: hammers and smiles, martelli e sorrisi. Da un lato si enfatizza la schiacciante potenza del suono, dall’altro l’attitudine ironica e per certi versi quasi demenziale dei cinque. Entrambi gli elementi vengono confermati concerto dopo concerto, ma l’impressione è che Tangk, anche dal vivo, sia un ulteriore spartiacque nella storia della band, e che ai martelli e ai sorrisi si siano aggiunti degli elementi inediti.

In generale, infatti, i brani del disco nuovo sembrano rispondere alla grande a queste prime uscite dal vivo proprio grazie alla novità che rivelano: rispetto ai lavori precedenti, Tangk è un disco molto diverso, in cui le tendenze quasi hardcore dei primi quattro dischi sono più sfumate e in cui la band si è programmaticamente emancipata dalla trappola del punk in cui era stata cacciata a forza dopo i primi dischi. In altre parole: Tangk è un disco molto più melodico, in cui i brani sono nel complesso più distesi e in cui i momenti esplosivi e rabbiosi sono calibrati e non più necessariamente prioritari; è anche un disco in cui Talbot non grida nel microfono, dando molto più spazio alla sua fascinazione per il mondo dei crooner, già accennata nei dischi precedenti ma qui valorizzata come mai prima; è un disco, inoltre, in cui la politicizzazione dei precedenti è marginale, e lascia il fuoco dell’obiettivo libero di puntarsi su altre tematiche, a partire dall’amore, dalla depressione e dalle fragilità e dalle insicurezze che mettono al centro il lato più intimo e meno militante di Talbot. E non sono solo speculazioni critiche: il desiderio di liberarsi del fardello del punk a tutti i costi è una delle priorità dichiarate dagli stessi membri della band in diverse interviste relative al disco.

Il risultato è che il live degli Idles, di pari passo con la discografia, si è arricchito di momenti non solo inediti, ma forse impensabili fino anche solo a Five Years of Brutalism. E tanto la delicatezza ansiogena di una Grace, la relativa sfacciataggine di una Dancer (brano pubblicato in collaborazione con LCD Soundsystem) o la quasi-psichedelica di Pop Pop Pop, valorizzati da esecuzioni particolarmente efficaci e coinvolgenti, sono momenti cardine del live al pari dei classici favoriti del pubblico con alle spalle anni di rodaggio. Che comunque non mancano: Danny Nedelko, I’m Scum e Never Fight a Man With a Perm rimangono i momenti preferiti del pubblico, dimostrando di aver raggiunto quello status di imprescindibilità che garantirà loro la titolarità fissa nelle scalette della band per un bel po’ di anni.

Per il resto il concerto è la solita furia, in cui gli Idles esibiscono implicitamente la mitra di sacerdoti di questa specie di nuova British invasion che ci sta regalando, negli ultimi anni, le graditissime esperienze di band come Fontaines D.C., Murder Capital, Black Country New Road, Shame e via dicendo, ciascuna delle quali ha un certo debito verso il quintetto di Bristol che si è premurato di spianare la strada verso il grande pubblico a queste nuove tendenze.

Che dire, quindi, degli Idles? Semplicemente che sono una delle band imprescindibili di questa nostra epoca.

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