Ieri sera al Carroponte i Deftones hanno spaccato | Rolling Stone Italia
Gli eretici del nu metal

Ieri sera al Carroponte i Deftones hanno spaccato

Un giro all’ex Breda per capire come se la passa la band. «Grazie per averci accolti. Come state? Io sto alla grande!». Si vede Chino, si vede. La prossima volta, però, il volume più alto, grazie

Ieri sera al Carroponte i Deftones hanno spaccato

Chino Moreno coi Deftones

Foto: Barry Brecheisen/WireImage

La metà degli anni ’90 sancisce la nascita di un nuovo genere musicale, creato perlopiù da giovani californiani vestiti come spacciatori albanesi di stanza a Busto Arsizio, lontani anni luce dalla spensieratezza cazzona a base di rutti e innocuo punk-pop di Green Day e Offspring, ma che anzi ringhiano inquietudine, paura e rabbia su riff cafoni e sincopati ibridando schizofrenicamente hip hop e metal. L’album omonimo dei Korn del 1994 è considerato l’apripista, la pietra angolare che definisce le coordinate del summenzionato genere, il nu metal (etichetta semanticamente orrenda allora come oggi), destinato di lì a poco a proliferare nella forma di tantissime band di successo: Limp Bizkit, Linkin Park, Slipknot e ovviamente Deftones.

Sin dal nome che evocava in me i fasti dell’assolata California dei Beach Boys, capitale del surf ma azzoppata, un gioco di parole che trasfigurava qualcosa di cupo, sordo (deaf), i Deftones catturano subito la mia attenzione. Anche l’aspetto dei membri sembra diverso rispetto alle altre band: a guardarli non sembrano commessi di Foot Locker che non hanno finito la scuola dell’obbligo, ma solenni ex detenuti di Tijuana con ascendenze asiatiche. Decisamente più fichi. Il fatto poi che vengano da Sacramento, una città il cui nome evoca subito condizioni difficili e rotture di coglioni quotidiane, che abbiano un background da skater e che il loro frontman di nome faccia Camillo detto Chino (per via delle origini cinesi della madre) me li fa stare subito simpatici. È chiaro da subito che i Deftones hanno ben poco a che spartire coi loro contemporanei se non le coordinate geografiche. E anche quando, pochi anni dopo, il proliferare di epigoni nel nu metal spingerà le band fondatrici a giocare la carta del jolly, ovvero inserire in formazione un dj che scratcha (e rimarca ulteriormente i legami con l’hip hop e la cultura nera) i ragazzi di Sacramento lo faranno a modo loro, con Frank Delgado a stratificare un suono già complesso, siderale, etereo e violentissimo allo stesso tempo.

Trent’anni sono passati dai miei pomeriggi in cameretta a consumare Adrenaline, tre decenni che la band di Sacramento ha attraversato senza mai cedere alla tentazione di snaturarsi ma evolvendo e ampliando il proprio lessico che spazia dallo shoegaze all’elettronica passando dal post rock ma restando incotestabilmente pesante come un macigno. Come tutti anche loro hanno affrontato tragedie (la morte del bassista Chi Cheng), tensioni interne (soprattutto tra Abe Cunningham e Moreno), qualche scivolone (il trattamento riservato al bassista Sergio Vega), ma non hanno mai perso la strada, cementando un culto che ormai abbraccia diverse generazioni.

È la prima cosa che noto quando arrivo al Carroponte di Sesto San Giovanni, teatro dell’unica data italiana sold out del quintetto: ci sono tantissimi giovani metallari con tatuaggi di Berserk, bandane, vestiti stracciati e un numero di ragazze inusitato per il tipo di musica in questione (indubbiamente merito delle sfumature sexy noir della voce tenorile del Chino) frammisti a veterani con l’aspetto di consunti biker brianzoli che indossano fieramente le loro logore magliette di passati tour della band. Migliaia di persone che sono confluite nel parco di archeologia industriale dell’ex Brera Siderurgica che mi ricorda un po’ Williamsburg quando la compri su Temu.

Il sole tramonta su questa gabbia d’acciaio mentre la band calca il palco e parte con un uno-due da paura: Be Quiet and Drive (Far Away) e My Own Summer (Shove It), due biglietti da visita tra i più rappresentativi del gruppo, tratti dal secondo lavoro in studio Around the Fur. È come essere un giovane concorrente di Masterchef e ricevere una manata devastante da Cannavacciuolo ancora prima del pressure test. Si prosegue con Diamond Eyes, tratto dall’omonimo sesto album e con Tempest, rarefatta gemma tratta dal bellissimo Koi No Yokan del 2012, il disco che mi fece capire che i Deftones erano tutt’altro che finiti.

La stessa cosa che penso adesso: ammetto di essere venuto qui con l’aspettativa di assistere alla professionale esibizione di simulacri di gloriose vestigia ormai legate al passato. Beh, col cazzo: arriva la galoppante Swerve City e poi uno dei miei brani preferiti del loro catalogo, Feiticeira, tratto dall’acclamato capolavoro White Pony, che 25 anni fa emancipò per sempre la band da un genere al quale non erano mai davvero appartenuti. Le chitarre di Carpenter (ammesso che sia lui: avevo letto a novembre che dopo il Covid aveva preso la decisione di non fare più voli intercontinentali per limitare gli attacchi di panico; se non è lui comunque suona uguale e sembra uscito da Tale e quale show) sono la solita motosega di Non aprite quella porta, il basso (suonato da Fred Sablan) un accompagnatore discreto e indispensabile, la batteria di Cunningham un capolavoro di dinamica potente ed elegante ma è la voce ultraterrena di Moreno a dare un senso a tutto, a caricare di tensione emotiva ogni brano: Digital Bath, Rocket Skates, Around the Fur (non la sentivo live da quanto? Vent’anni? E qui mi sembra meglio dell’originale).

A 52 primavere Camillo, dimagrito, energico, sembra il figlio di quel cantante che avevo visto sei volte tra il 2001 e il 2015. Il filo del microfono arrotolato all’avambraccio, corre, salta, urla e sorride. «Grazie per averci accolto nella vostra terra bellissima. Come state? Io sto alla grande!». Si vede Chino, si vede.

Il set attraversa sapientemente il catalogo dei californiani (Sextape, Headup, Rosemary, Hole in the Earth) fino ad arrivare alla Stairway to Heaven della band, Change (In the House of Flies). È uno dei vertici dello show, anche grazie a visuals semplici quanto efficaci e alle rarefatte atmosfere lussuriose apparecchiate da Frank Delgado (che per tutto il concerto ha girato cursori e potenziometri con l’aria distaccata e stanca di un dipendente A2A che legge il contatore del gas).

C’è giusto il tempo per una divagazione contemporanea (Genesis) per poi arrivare ai bis: la sontuosa minerva e due gemme primitive da Adrenaline, a finire oggi dove tutto era cominciato allora: Bored e 7 Words. Possiamo chiedere di più a questa serata? Forse giusto un po’ di volume ma si sa, Sesto San Giovanni è piccolo e la gente mormora (specie dopo le 21). Vorrei finire anche io con sette parole: grazie mille ragazzi avete spaccato di brutto.

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