I Tool non hanno bisogno dell'hype, e nemmeno dei fan | Rolling Stone Italia
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I Tool non hanno bisogno dell’hype, e nemmeno dei fan

In attesa del 'Chinese Democracy' dell'alternative metal, la band è tornata in Italia dopo più di 10 anni di assenza per la data a Firenze Rocks. Un concerto tanto perfetto quanto freddo: niente bis, niente chiacchiere, niente fanfare

I Tool non hanno bisogno dell’hype, e nemmeno dei fan

Maynard James Keenan dei Tool

Foto: Luigi Rizzo

La splendida cornice di Firenze Rocks – giunto alla sua terza edizione – e della Visarno Arena ospitano l’unica data italiana del grande ritorno dei Tool, da più di una decade lontana dai palchi italiani. La band americana formata da Maynard James Keenan, Adam Jones, Danny Carey e Justin Chancellor, negli anni di silenzio discografico ha mantenuto se non addirittura rinforzato la sua fama e credibilità, alimentando l’ossessione dei fan con il continuo mancato arrivo del seguito di 10 000 Days, e benché l’uscita del nuovo album sia programmata per il 2019 (più precisamente il 30 agosto, come è comparso sul palco a Birmingham) e i Tool suonino sempre in questo tour le nuove Descending e Invisible, facciamo fatica a credere che uscirà davvero quest’anno quello che su queste pagine è stato definito il Chinese Democracy dell’alternative metal.

L’eterogeneità del pubblico – dal metallaro incallito, al fissato di progressive, passando per ragazzini dall’attitudine grungesque, fino all’anonimo (esteticamente) appassionato di musica – non fa che dimostrare, se ce ne fosse ancora bisogno, quanto i Tool siano amati e trasversali e quanto conservino quest’aura mistica da anti-star, in barba a chi vuole che le regole del mercato debbano essere seguite alla stessa maniera da tutti. I Tool non sono su Spotify e altre piattaforme di streaming (anche se si dice che presto arriveranno), Maynard canta di spalle quando vede troppi flash – e anche qui siamo un po’ scettici sulla sua presunta fotofobia – e non fanno davvero nulla per essere accomodanti, mostrando una particolare idiosincrasia nei confronti dei loro fan più accaniti e in generale dimostrano da sempre un sincero disgusto nei confronti della loro stessa fama e dell’aura di profeti affibbiatagli da critica e pubblico.

Adam Jones dei Tool. Foto: Luigi Rizzo

Le premesse sono del tutto rispettate e se gli Smashing Pumpkins scherzano, salutano e inanellano classici, pur sembrando un po’ fuori forma – impossibile non registrare tuttavia un tuffo al cuore collettivo su pezzi come Bullet with butterfly wings e 1979, solo per citare i pezzi più noti del catalogo – i Tool, come da tradizione, si lanciano in un concerto devastante e tutto d’un fiato, senza saluti, ringraziamenti o convenevoli di sorta, apparendo in una forma strepitosa. Le visual rubano la scena, una stella a sette punte campeggia sopra il palco, le immagini rinforzano la cupa spiritualità lisergica della band che preferisce farsi ascoltare a farsi vedere. Il pubblico è estatico in tutte le fasi del concerto e si scambia cenni di assenso e d’intesa durante i nuovi brani e urla entusiasta su i grandi classici della band losangelina, su tutte Parabola, Schism e Jambi sono quelle che esaltano di più l’audience gigliato, ma più in generale è una performance difficilmente criticabile, vista la potenza, la precisione, l’intensità con cui viene eseguito ogni brano.

Probabilmente i Tool incarnano ciò a cui più aspirano moltissime band: degli artisti che salgono sul palco, eseguono il loro set, mettono al centro la musica e salutano, senza bis, chiacchiere e fanfare varie. Non importa se Maynard si intravede appena o se Jones e Chancellor sono un po’ statici, il messaggio che arriva è “noi pensiamo alla musica, voi godetevela”, ed infatti il pubblico se la gode, c’è chi poga furiosamente, chi con risultati alterni prova ad andare a tempo con la testa sui passaggi più complessi, chi prova ad imitare il batterismo eclettico di Danny Carey, rischiando di accecare tutti i vicini, chi canta tutti pezzi con un vigore, una passione, un amore affatto banale. Io rimango incantato a fissare le bellissime visual, sospeso e rapito dal perfetto binomio fra musica e immagini, mi risveglio solo nelle brevi interruzioni fra un pezzo e l’altro, intorno a me le persone si abbracciano, si mandano di quelle occhiate che esistono solo ai concerti, a quei concerti, quelli che rimangono nella tua storia personale. Una sorta di esperienza religiosa.

Il batterista Danny Carey. Foto: Luigi Rizzo

I Tool pescano da tutto il loro catalogo, trascurando solo il primo album (da cui hanno suonato Sweat), ma è un’inezia che difficilmente si può rimproverare a una band che ha ripagato l’entusiasmo dei fan mettendo al centro la loro arte, non accomodandosi alla dimensione del loro hype, come tanti loro colleghi anche nella scena alternativa – ammesso che ce ne sia veramente una.

In attesa del nuovo album, ci auguriamo che i Tool tornino presto a calcare i palchi italiani e a mostrare a tutti che si può ancora fare una musica differente, complessa, colma di riferimenti alti, senza dover necessariamente essere accomodanti, piacioni e fan-friendly.

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