I problemi di Ligabue visti da un ex iscritto al Bar Mario | Rolling Stone Italia
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I problemi di Ligabue visti da un ex iscritto al Bar Mario

Cronaca del live all’Artemio Franchi: stadio mezzo vuoto, volume spropositato e un repertorio piatto. Forse è arrivato il momento di fare una riflessione

I problemi di Ligabue visti da un ex iscritto al Bar Mario

Ligabue

Foto: Moris Dallini

Partiamo dalla fine. L’impatto è impietoso: l’Artemio Franchi è mezzo vuoto. Il Liga suona di fronte a un sacco di buchi. La curva Fiesole è addirittura chiusa per mancanza di pubblico e fa effetto vederla deserta. Proprio lei, che è la cornice delle coreografie e delle folle in festa. Lei che è la prima cosa che si vede dal palco… Nel prato, le persone stanno larghissime per difendersi dal caldo e dalle zanze. Manca tutto, tranne lo spazio.

«Quanti ne avete venduti?» sento dire a due persone dell’organizzazione. Il tizio esita, poi se ne esce: «Ventimila, però io non te l’ho detto». Capirai… è un segreto di Pulcinella perché chiunque si rende conto che lo stadio è forse un po’ esagerato come location di questo concerto. Come esagerato è il palco sterminato che occupa tutta una curva e un impianto audio che manco le band americane. Il volume è improponibile, mi metto i tappi di cera dopo aver sentito raccomandazioni per il personale del palco: non passate davanti alla passerella perché li il volume è talmente esagerato che potreste avere danni permanenti all’udito. Ma che roba è? Per cantare Certe Notti non serve quel volume. Basta con lo stereotipo rock che solo quando sanguinano le orecchie si chiama musica.

La location del concerto. Foto: Ray Banhoff

Oggi siamo nell’era dei numeri ed è tutto molto pratico. Nel 1999 il Liga riempiva gli stadi, nel 2019 non più. Lui è sempre lo stesso, due chitarre-basso-batteria con quella voce e quel sound. Pure il suo pubblico è lo stesso. Si vedono pochi giovani e tanti millennials, poi gente post quaranta coi pinocchietti e il borsello. Sono quelli che nel ’99 erano magri e giovani. Fedelissimi. È un concerto per loro, per i fan di una volta, una cerimonia privata di rievocazione dei vecchi fasti. Pure il sound è lo stesso e forse questo è un limite. Nel rock nessuno inventa niente si sa, è tutto rielaborazione di pentatoniche e di scale di altri, ma Luciano sta suonando la stessa canzone da troppo tempo. E ce l’hanno fatta sentire così tante volte alla radio e alla tv che non se ne può più (perché gli artisti vengono sfruttati da tutti e sovraesposti quando tirano, poi gettati nel buio appena passano di moda). Il secondo pezzo in scaletta ero convinto che fosse Urlando contro il cielo, invece era un’altra identica. Per carità, non si può essere tutti Bowie, ma con le rivoluzioni che ci sono state nella musica, l’unica roba che si vede è che qui non è cambiato mai niente.

E non si può nemmeno dire che il rock o il cantautorato sono un genere in crisi, perché con il suo tour estivo Vasco ha portato allo stadio 900 mila persone. È un paragone che fa male se si tira in mezzo il Liga, che per un certo periodo sembrava in grado di competere col gigante di Zocca. Poi si è bruciato. Mai una pausa, mai un rinnovamento tolto il taglio di capelli. Film, dischi, romanzi pure libri di poesie. Eddai. Libri di poesie… Forse ha esagerato. A volte un artista ha bisogno anche di darsi dei paletti, di concedersi delle pause. Non riuscire a riempire uno stadio non è grave, succede. Non si può stare sulla breccia sempre. Però ecco uno può evitare rogne suonando in un teatro, in contesti più piccoli. Ligabue viene da Correggio, è stato un metalmeccanico, ha ottenuto risultati immensi in carriera e ha sicuramente l’umiltà per capire la situazione. O forse no. Forse gli scoccia ammetterlo. E forse pure quelli del suo staff se la menano a dargli un consiglio che non vuol sentirsi dare. Ma è un errore, un nascondere la polvere sotto la sabbia. Per esempio, Ligabue è basso. Me ne sono accorto solo quando l’ho avuto accanto. Per anni ero stato fuorviato dagli stivali col tacco e da delle foto che lo ritraevano in modo illusorio. Come se fosse un handicap, un limite, quando invece è una cosa di cui non frega niente a nessuno. Ecco questo esempio mi pare utile a capire come mai sono venuto via annoiato dopo quaranta minuti da uno stadio mezzo vuoto. Inutile raccontarsela: in quel concerto non succedeva nulla e premetto che non avevo nessun pregiudizio o aspettativa. Non mi sono emozionato che è l’unico motivo per cui uno deve pagare un biglietto. Erano solo canzoni una dopo l’altra, non mi toccava. Tolti i fedelissimi, non era uno spettacolo per clienti occasionali, magari amanti della musica, curiosi, cultori.

Il palco di Ligabue. Foto: Moris Dallini

Mi dispiace vedere lo stadio vuoto, a quattordici anni il mio primo concerto è stato Liga qui al Parco delle Cascine, ero pure iscritto al fan club del Bar Mario. Mi li appunto arrivava Mario, con la sua panza e lo straccio del bancone del bar a aprire la serata. A quei tempi qualcosa succedeva. Se si continuano a fare gli eventi per pochi intimi è chiaro che poi gli altri si sentono esclusi. Mi riferisco ai fan potenziali. E non si può sempre dare la colpa alla crisi, ai tempi, alla trap, a internet, a Spotify. A volte per andare avanti basta solo fare un minimo di autocritica. Ripeto: non è niente di grave non riempire uno stadio, può succedere. È altro che conta.

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