Rolling Stone Italia

I Phoenix sono ancora la band più cool che potete vedere dal vivo

Precisi, solidi, impeccabili. Ieri sera a Milano la band francese ha dato una lezione di stile (sonoro ed estetico) ricordandoci l'importanza di saper suonare (molto bene) buona musica senza tempo

Foto: Kimberley Ross

Nel 2009, quando i Phoenix erano all’apice della loro carriera, ho perso una grande occasione per sentirli dal vivo. Era da poco uscito Wolfgang Amadeus Phoenix, il loro album meglio riuscito, e più conosciuto, e la band era tra i main event del Primavera Sound di Barcellona di quell’edizione. Avevo ventun anni ed ero affascinato da un certo movimento indie dell’epoca e prima della loro esibizione andai a sentire il multistrumentista statunitense Andrew Bird, con l’intenzione di abbandonare verso la metà per raggiungere i cugini francesi. Le cose però non andarono come da programma: Bird fece un live clamoroso e decisi di rimanere fino all’ultima nota. Corsi – sì, avevo l’età per farlo con un certo trasporto, come in ogni indie movie che si rispetti – sentendo in lontananza le note di If I Evel Feel Better, ma quando raggiunsi il palco, il gruppo si congedò. Lì rivedrò presto, suoneranno tantissimo in Italia, pensai. Ed eccoci al 2022.

«Non so perché veniamo così poco in Italia», si interroga Thomas Mars dal palco visibilmente impressionato dalla reazione del pubblico dell’Alcatraz di Milano. E lo posso capire. I Phoenix non hanno suonato tanto in Italia, giusto un paio di volte in oltre dieci anni (tra il 2017 e il 2018 in supporto del loro penultimo disco, Ti Amo) e per, una serie di ragioni, ho dovuto aspettare tredici anni per riuscire a recuperare quell’errore di gioventù.

Vedere per la prima volta una delle band della mia adolescenza dopo così tanti anni è una sensazione strana: sono cresciuti loro, ovviamente, come sono maturato io, e come sicuramente è mutato il modo in cui ascolto e vivo i concerti (stavolta non ho corso, ad esempio, ma ho pedalato fortissimo per non arrivare in ritardo). Quello che però mi sento di poter dire con estrema facilità è che i Phoenix – per sé – non sono cambiati, sono rimasti senza tempo, evergreen, come una band classica, senza però perdere nemmeno un briciolo di quello che li ha sempre contraddistinti: una coolness innata.

I Phoenix infatti non sono una posa, non si atteggiano (esteticamente o a livello strumentale), non provano ad essere cool (come il titolo di uno dei loro singoli tratti dall’album Bankrupt!), ma semplicemente – e naturalmente – lo sono. Nonostante la non più giovane età e qualche capello bianco sul palco (alcuni dei musicisti sono nella seconda parte dei 40), sembra che a loro venga tutto facile. Spontaneo. Il sound è organico e solido, il timing impeccabile (Thomas Hedlund alla batteria è un piacere) e la passione è ancora lì a bruciare, come fosse il giorno uno. In gergo si direbbe che i Phoenix hanno la pacca, ovvero quella capacità di edificare un output sonoro pulito, chiaro, comprensibile. Impeccabilmente sul beat.

E c’è poco da fare, quando una band suona bene, senza sbrodolare o strafare, affilando i propri punti di forza, dal pubblico si gode. E coi Phoenix si gode tantissimo. Il live è un piacere per le orecchie e spesso anche per gli occhi visto che la messa in scena premia un minimalismo che riduce all’osso il necessario sul palco e nel reparto luci, rendendo spesso i membri della band delle silhoutte contornate dalle proiezioni del ledwall evitando quindi di sottomettere l’audience ad un frastuono luminoso. Quel che conta, e tutta la performance sembra ribadirlo, è permettersi del tempo per ascoltare musica-suonata-bene. Ventidue anni di carriera e sette dischi sono stati un’ottima scuola, si sente tutto.

Un’ora e mezza di concerto tiratissimo, in cui sono stati suonati alcuni brani dal nuovo album, Alpha Zulu, e praticamente tutte le hit del gruppo di Versailles, da If I Ever Feel Better, che lanciò la band nel lontano 2000, a Long Distance Call, da Lisztomania (che ha aperto il concerto) a J-Boy, da Telefono e Fior Di Latte (performate solo voce e clavincebalo), passando per Lovelife (in cui la band ha ospitato l’amico Giorgio Poi) fino alla conclusiva 1901.

A volte per ricordarci che questa cosa della musica è magnifica tutto ciò di cui abbiamo bisogno è una band che suona (bene) buona musica. E i Phoenix, nella loro innata coolness, ci hanno ricordato quanto sia importante saperlo fare bene.

Iscriviti