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I Hate My Village: il racconto del backstage

Nei camerini della Santeria di Milano, prima del live, abbiamo incontrato la band afro beat composta da Alberto dei Verdena e ciurma. Una buona scusa per parlare di tour, di scrittura brani e di improvvisazione

I Hate My Village: il racconto del backstage

Fabio Rondanini, Adriano Viterbini, Marco Fasolo, Alberto Ferrari

Foto di Marta Clinco

«Circa cinque giorni» dice un Alberto Ferrari indeciso sul tempo che ci ha messo per scrivere i testi degli I Hate My Village. Tutti e quattro i membri della neonata band se ne stanno stravaccati su un divanetto nel backstage della Santeria, a Milano. Il loro concerto è fra un paio d’ore ma sono belli tranquilli e rilassati: qualcuno fa stretching, qualcuno fa un’incursione nel buffet a rubare due fette di bresaola. Alberto forse è quello più irrequieto, avendo smania di fumare la sua sigaretta, ma negli uffici del locale milanese non si può fumare. La tiene già pronta da accendere nella mano sinistra, insieme all’accendino, mentre nella destra una lattina di birra. Gli chiedo se posso prenderne una anche io dal frigo. «Certo! Comunque, i testi mi sono venuti di colpo, sul momento. Non li avevo neanche sentiti i pezzi. Non volevo sentirli nemmeno, giusto una volta. Non li ho sentiti finché non mi sono messo lì, in cuffia, da solo, e ho scritto i testi. Come se fosse una jam. Ci si mette lì e si suona.»

«Comunque è semplice come disco, eh» giustifica Alberto la velocità nella scrittura dei testi. «Avrà una sola nota, ogni pezzo non è che sia una roba orchestrale».

Da sinistra: Adriano Viterbini, Fabio Rondanini, Marco Fasolo.

L’idea del gruppo però, a metà fra l’afro beat di Fela Kuti e la world psichedelica dei Goat, nasce da Adriano Viterbini, signore oscuro dei Bud Spencer Blues Explosion, e Fabio Rondanini, mastro delle percussioni già di Calibro 35 e Afterhours. Mentre alla produzione, non ché basso dal vivo, Marco Fasolo dei Jennifer Gentle, taciturno nelle chiacchierate ma spigliato dove alla fine conta davvero, il palco.

Per quanto il cantante lo definisca «maccheronico» I Hate My Village è un disco in inglese perché banalmente era destinato a un’etichetta d’oltremanica. «In realtà, ancora prima di quella, era destinato a un’etichetta super importante della musica africana in Europa. La più importante» racconta Rondanini, che è un po’ il portavoce della band essendo anche il musicista più navigato e il più loquace. «Non dirò mai il nome. Insomma quelli di questa etichetta hanno sentito il disco e ci hanno scritto immediatamente. Dopo due giorni eravamo con loro in riunione su Skype. Ci hanno detto “Però dovete aspettare un po’, tipo sei mesi.”» Da quel meeting in videochiamata i sei mesi passano, seguiti però da altri sei di temporeggiamenti da parte della label. «Il disco ci stava invecchiando fra le mani. Avevamo mille idee, lo volevamo suonare dal vivo.»

«A un certo punto ci siamo detti: “La musica africana è il futuro. Proviamo a miscelarla alle cose nostre, alle nostre influenze e vediamo che succede» racconta anche Adriano sfoggiando dei pantaloni bianchi attillati e una t-shirt scollata. «Anzi, proprio perché nessuno l’ha mai fatto qui in Italia». Non era solo un’urgenza creativa, aggiunge Fabio. «È soprattutto intrattenimento di noi stessi. Volevamo un bel disco da ascoltare e ce lo siamo fatto.»

Foto di Marta Clinco

Ma come si suona dal vivo un disco che dura complessivamente 24 minuti? «Non potevamo dilatare troppo con brani da 21 minuti» racconta Fabio. «Anche perché quello è uno dei motivi per cui l’afro beat poi è morto. Semmai, noi ci teniamo una struttura predefinita e da lì improvvisiamo.» È una specie di impostazione jazz per suonare un disco punk nella durata, che poi sul palco di Santeria si dimostra una macchina letale, senza protagonisti o frontman, che fonde blues a afro beat a psych e (a volte) a batterie elettroniche, per poi farti solo intuire lontanamente se la canzone che stanno suonando è Fare Un Fuoco oppure Tony Hawk Of Ghana.

Quanto alla voce, Alberto si riserva uno spazio improvvisatorio anche lì. «Ma dipende tanto dal giorno» dice, indossando un giaccone di pelle consumato. «A volte sono tanto chitarristico, altre vocale. Stasera non so.» «Magari neanche si presenta sul palco» scherza Marco scatenando le risate generali. Ma poi sul palco ci è salito. Rigorosamente dopo essersi fumato la sua sigaretta sacra.

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