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I Depeche Mode a San Siro hanno celebrato la vita, con mestiere

Gahan e Gore hanno conquistato il pubblico di Milano con una raffica di classici in un live solido, efficace e ben collaudato, forse fin troppo. È mancata la sorpresa capace di stupire

Foto: Kimberley Ross

Sui biglietti dei Depeche Mode bisognerebbe mettere un avvertimento. «Attenzione: rischio noia per chi li ha già visti più di tre volte». Che invidia, vedendo Dave Gahan e Martin Gore riempire San Siro per la quarta volta, per quelli che prima di ieri sera non li avevano ancora mai visti spingere a pieni giri la locomotiva Depeche Mode. I due fondatori della band hanno portato sul palco la loro storia ultraquarantennale assieme a un riuscitissimo ultimo album, che con il passare dei mesi non ha perso un centimetro del suo spessore, e che alla fine è risultato essere anche il più presente in scaletta. E per tutti coloro che quella storia, anche per motivi anagrafici, non hanno potuto viverla interamente in diretta, il live di ieri non può che essere stato uno spettacolo memorabile. Una band elettronica con un frontman come Dave Gahan non si è mai vista, per non parlare dei pezzi: un classico dopo l’altro, non c’è neanche bisogno di presentarli, e infatti i Depeche Mode non lo fanno. Un concerto che funziona perfettamente per dire chi erano Depeche Mode a chi nasceva ai tempi di Music For The Masses (1987) o anche dopo, ovviamente.

E il pubblico ha risposto alla grande, rappresentando ancora una volta l’ingrediente caldo dei concerti della band. Un giorno qualcuno dovrà scrivere un saggio sull’evoluzione on stage dei Depeche Mode, da “Kraftwerk con Jim Morrison” a rock band a tutto tondo, iniziata durante il tour di Violator (1990) ed esplosa durante il tour successivo (1993). L’elettronica da stadio l’hanno inventata loro. Accendini, braccia alzate, cori: nel loro concerto c’è tutto l’immaginario rock. Se per assurdo non si guardasse il palco, si potrebbe pensare di essere a un concerto degli U2 (tanto per citare una band nel cui ordine di grandezza i Depeche Mode si sono assestati da tempo). Sul palco, sormontato da un’enorme M, va in scena quella che in molti hanno visto come “una celebrazione della morte”. Sul titolo dell’ultimo album (Memento Mori) ci sono stati in realtà dei fraintendimenti e lo stesso Martin Gore ha detto che era un’esortazione a godersi la vita.

A San Siro i Depeche Mode hanno celebrato la vita, la loro, ovviamente, ma pur sempre la vita. I visuals di Anton Corbijn sono lugubri (i teschi, la partita a scacchi del video di Ghosts Again) ma ben si adattano alla postura di Dave Gahan, sempre funzionale all’espressione di un tormento. La passerella che si allunga nel prato gli permette di cercare in continuazione il contatto con il pubblico, un’altra cosa che nel mondo dell’elettronica hanno inventato loro. Sul palco, assieme ai due fondatori, il polistrumentista Peter Gordeno e il batterista Christian Eigner, con loro da una vita. Una scelta di essenzialità che, anche grazie a un ragionevole uso di basi, permette di rispettare il marchio di fabbrica.

Per quanto riguarda quest’ultimo, va detto che chi ha qualche anno sulle spalle e ha avuto la possibilità di vedere in azione la band più e più volte non può fare a meno di constatare come ci siano suoni, cori e movimenti sul palco destinati a ripetersi nei secoli dei secoli. Si chiama mestiere, e non è una parolaccia, anzi. Anche perché il mestiere Depeche Mode è un mestiere di vaglia. È vero che la mossa di Dave Gahan che gira vorticosamente su se stesso si è vista anche al PalaTrussardi nel 1987 (e probabilmente anche prima), però nel 2023 anche Peter Gabriel ripete il balletto di Sledgehammer, solo che Gahan è ancora in forma come nel 1987, mentre Gabriel, ehm.

Ai Depeche Mode, ci mancherebbe, non si può chiedere di fare i Bob Dylan del technopop e inventarsi un concerto spiazzante e senza concessioni alle attese del pubblico. Però magari qualche sorpresa, questo sì. Altrimenti anche pezzi meravigliosi come Enjoy The Silence o Never Let Me Down Again rischiano di perdere forza, eseguiti sempre alla stessa maniera, reazioni del pubblico comprese. Invece il piano di In Your Room, la versione chitarra-basso-batteria di A Pain That I’m Used To e le voci dei due cantanti a intrecciarsi su Waiting For The Night, pur non costituendo sorprese in senso assoluto, mostrano una possibile strada che per il resto la band ha deciso di non percorrere. A meno di voler considerare una sorpresa anche il call and response alla Freddie Mercury che Gahan si inventa alla fine di Just Can’t Get Enough (curioso che giusto una settimana fa il cantante dei Queen sia stato omaggiato anche dai Blur nel primo dei loro concerti a Wembley).

Fatte queste critiche, che Dio ci conservi i Depeche Mode e la loro decisione di andare avanti nonostante la dolorosa perdita di Andrew Fletcher, sobriamente omaggiato durante World In My Eyes anche attraverso gli scatti di Corbijn: un anno fa non avremmo certo immaginato di trovarci di nuovo in uno stadio al cospetto di una band che avrebbe potuto decidere di mettere la parola fine alla sua parabola. Solo che, ecco, come cantava Francesco De Gregori, «tra bufalo e locomotiva la differenza salta agli occhi: la locomotiva ha la strada segnata». Che bello se i Depeche Mode, per una volta, decidessero di essere bufalo.

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