I Cure farebbero venire voglia di eyeliner anche a un naziskin | Rolling Stone Italia
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I Cure farebbero venire voglia di eyeliner anche a un naziskin

Dopo il set dei Sum 41, gli unici ad animare il pit di Firenze Rocks, la band di Robert Smith ha regalato ai fan un concerto memorabile che ripercorre 40 anni di carriera. Un greatest hits di canzoni che non invecchieranno mai

I Cure farebbero venire voglia di eyeliner anche a un naziskin

Robert Smith dei Cure

Foto: Luigi Rizzo

Mica facile chiudere un festival con stile, anche considerando cosa è riuscito a combinare Vedder (da solo prima, con gli archi poi) nella precedente serata. A meno che il tuo nome non sia Robert Smith, in un particolare stato di grazia. C’era grande curiosità attorno alla data dei Cure: le incognite sulla scaletta erano molte, tra un disco nuovo in arrivo (dal quale gli inglesi scelgono di non andare a pescare) ed un appena concluso tour australiano dedicato ai 30 anni di Disintegration. Prima di loro è toccato ai canadesi Sum 41 scaldare il pubblico, riuscendo finalmente ad animare il pit in un’edizione del Firenze Rocks che ha puntato decisamente meno sul puro impatto sonoro rispetto alle precedenti due. Oggi l’età media dei partecipanti è probabilmente la più alta di tutte e tre le edizioni della kermesse fiorentina, ma i ragazzi capitanati da Deryck Whibley sono molto bravi e tengono il palco alla grande: il pubblico apprezza e loro, per tutta risposta, picchiano forte. A dispetto di quello che si potrebbe pensare, data la scaletta della giornata, non tutti oggi sono qui (solo) per i Cure: i Sum 41 hanno un sacco di fan dalla loro, che trasformano presto lo spazio sotto al main stage in una partita di Calcio Storico fiorentino, soprattutto sul tris finale In Too Deep, Fatlip e Still Waiting. Molto bravi.

Foto: Luigi Rizzo

Il concerto dei Cure si divide fondamentalmente in due parti: nella prima, il gruppo ripercorre 40 anni di carriera (Three Imaginary Boys è del 1979 anche se stasera risulterà assente): è Shake Dog Shake a dare il via alle danze, subito seguita da Burn, introdotta dallo stesso Smith con una sorta di flauto andino, splendida traccia contenuta nella colonna sonora de Il Corvo. Sul palco non c’è praticamente nulla oltre al maxischermo: la batteria è al centro, ma lo spazio è tutto per la musica. Il primo brivido collettivo lo regala Pictures of You mentre è su Just Like Heaven che finalmente prende vita il basso di Simon Gallup, fino a quel momento invero abbastanza quieto e defilato. C’è Lovesong, e le effimere luci colorate di Fascination Street, c’è la meravigliosa In Between Days che scatena un coro collettivo da parte di tutto il pit, subito replicato nella successiva Play For Today. A Forest farebbe venire voglia di eyeliner anche a un naziskin, tutti ballano, accompagnando con un collettivo battimani il basso flangerato di Gallup fino all’evaporazione del pezzo.

Ma il protagonista, inevitabilmente, è lui, Robert Smith, in una serata riuscita: il cantante inglese è visibilmente divertito, scherza col pubblico, non si nasconde mai. Sono passati gli anni, gli eccessi di una vita sospesa fra un romantico nichilismo ed un’innata sensibilità pop sono più che visibili sul volto e sul corpo del cantante. Eppure, sotto quei kg di troppo e il pesante make up, durante la serata continuano a riaffiorare il ghigno beffardo e gli occhi dolci dell’ex ragazzo immaginario, campione mondiale di auto-abbracci, in perenne attesa di un’amante eterea che non si palesa mai. Sarebbe facile, per come funziona la comunicazione di oggi e, a cascata, anche un certo giornalismo, ironizzare sul suo attuale aspetto: sarebbe facile e stupido. Perché ci sono le canzoni, e quelle non sono invecchiate di un istante. «Adesso suoneremo qualche pezzo che non esito a definire pop» dice Robert col sorriso di chi ha finalmente fatto pace col proprio successo: la seconda parte del concerto è un vero e proprio regalo ai fan, praticamente un greatest hits della radiofonia Smithsiana.

Foto: Luigi Rizzo

Si ricomincia con Lullaby, e l’enorme ragnatela disegnata sul maxischermo, seguita da The Walk e The Caterpillar. Ma è il poker finale, una roba che andrebbe studiata in un’ideale accademia di Texas Hold’em della musica, a regalare ai fan una serata memorabile: Friday I’m In Love, Close To Me (ballata dallo stesso Smith), Why Can’t I Be You e la conclusiva Boys Don’t Cry che, al netto del titolo, porta le lacrime sugli occhi di molti attorno a me. Smith si congeda con un ‘torneremo presto’, non prima di essersi regalato un ultimo bagno di folla sulla passerella a bordo palco. Due ore e mezzo dopo, la sensazione è di aver assistito a un qualcosa di raro, puro, vero: Sunday, we are in love.

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