I CCCP sono ancora la band più intellettuale e meravigliosamente indecente d’Italia | Rolling Stone Italia
Ultima chiamata

I CCCP sono ancora la band più intellettuale e meravigliosamente indecente d’Italia

Lindo Ferretti, Zamboni, Annarella e Fatur non tornano, ma chiudono, con la prima data del tour dei saluti in un luogo simbolicamente inadatto (l'Auditorium Parco della Musica di Roma) quanto poeticamente perfetto. Erano, e rimangono, il migliore equivoco musicale dell’Italia anni ’80

I CCCP sono ancora la band più intellettuale e meravigliosamente indecente d’Italia

I CCCP in 'Ultima chiamata' all'Auditorium Parco della Musica di Roma

Foto: Andrea Amadasi

Questo non è un articolo sul concerto che i CCCP hanno tenuto ieri sera alla cavea dell’Auditorium Parco della Musica di Roma. Non potrebbe esserlo. Recensire un concerto dei CCCP come quello che ha aperto la seconda metà del loro tour di commiato: Ultima chiamata sarebbe come cercare di spiegare razionalmente un’apparizione: si può dire com’era vestita la Madonna, ma non perché si sia degnata di mostrarsi. Non è una cronaca, quindi, né un tributo nostalgico. È una piccola guida ai CCCP per principianti, scritta non tanto per chi ieri si è alzato in piedi e ha pogato perfino per tutta Libera me domine in latino. Semmai è per chi è restato seduto anche durante Mi ami?, prendendo le misure, cercando di capire. Un breviario CCCP eretico per i neofiti che, prima di ieri, avevano intravisto quella sigla — magari su una maglietta, su una ristampa, su una storia Instagram — e si erano chiesti: ma chi diavolo sono questi?

Ecco, erano diavoli. Ma travestiti da santi. Oppure santi che bestemmiavano a mo’ di preghiera definitiva, quando tutte le altre erano finite. Erano la band più intellettuale e indecente d’Italia, e lo sono ancora. Per comprenderli, non basta ascoltarli. Bisogna entrare nel loro mondo come si entra in una setta: pieni di dubbi, ma disposti a crederci.
Oggi l’Unione Sovietica è a due fermate da piazzale Flaminio. Non è certo la prima volta che i CCCP si esibiscono in un contesto istituzionale come questa architettura renzopiana. È uno dei tanti paradossi di un gruppo nato come virus e poi isolato come caso clinico della storia musicale europea: li abbiamo visti in teatri, festival ministeriali, chiostri, rassegne storicizzanti con tanto di professore che introduce. Ma l’Auditorium ha qualcosa di diverso. Forse perché è incastonato in un quartiere che voleva essere il nuovo polo culturale della Roma che non c’è più, progettato come cattedrale della civiltà borghese del suono, pensata per i Bach, i Beethoven, i Brubeck. E invece oggi ospita i CCCP, rafforzando la narrazione di un gruppo che non torna, ma chiude, e lo fa in un luogo simbolicamente inadatto quanto poeticamente perfetto.

Foto: Andrea Amadasi

Raccontare nel 2025 la musica dei CCCP equivale ad aprire una vecchia scatola di cartone che puzza di muffa e rivoluzione, piena di santini di elezioni comunali perdute, vinili deformati, bigodini di Annarella, copie di Tolstoj con dentro lamette-segnalibro. È musica che non somiglia a niente: né punk né new wave, né krautrock né cantautorato engagé, ma una miscela di urgenza e detrito, di folklore e parodia, un carillon sgangherato che suona melodie di propaganda con voce da rosario e basso distorto. I CCCP hanno preso l’estetica povera del punk e l’hanno innestata sul corpo rigido dell’ideologia, come un piercing su una salma imbalsamata. Le chitarre sono raschianti, ma non violente; sembrano più un rumore di fabbrica che un grido di battaglia. La voce di Ferretti non canta, declama: pare che stia sempre leggendo il bollettino della TASS mentre cade l’URSS: monologhi, sentenze, sparati con una teatralità che scimmiotta il comizio e lo sputtana dall’interno. Ma poi arriva l’Emilia che filtra tutto con quella sua malinconia da statale innevata, da sagra comunale sotto le luci al neon. Annarella, per esempio, è una dolcissima elegia che sembra uscita da una radiolina gracchiante nel retro di un circolo ARCI. Non è un caso che Massimo Zamboni abbia spesso rivendicato il ruolo della melodia: il suo modo di suonare è tragicamente disciplinato, da militante che ha studiato la chitarra classica sotto una dittatura. Eppure tutto è sporco, contaminato, deviato: il punk non come genere ma come sabotaggio dei generi. I CCCP non volevano assomigliare a nessuno, e ci sono riusciti: erano i Kraftwerk che inciampano su un palco a Carpi, i Dead Kennedys che scoprono Giovannino Guareschi, i Joy Division che provano a suonare Bella Ciao e si mettono a piangere a metà. Erano, e rimangono, il migliore equivoco musicale dell’Italia anni ’80.

I testi dei CCCP non si analizzano, si subiscono. Non sono canzoni, ma slogan che si vergognano di essere slogan, frasi fatte che si disfano sotto la lingua, versetti di un vangelo apocrifo dove Lenin e Santa Teresa d’Avila si ritrovano in una balera. Nessun gruppo italiano ha mai usato così male – e così bene – la parola scritta: con l’inflessione del comizio, la solennità della liturgia, l’ambiguità della propaganda. Io sto bene è una bugia messa in bocca a tutti noi che stiamo malissimo. I testi dei CCCP sono infiniti perché sono finiti: brevissimi, lapidari, aforistici, sono già citazione di sé stessi.

Foto: Andrea Amadasi

Anticipano la comunicazione social per sottrazione e semplificazione, ma lo fanno con la coscienza tragica di chi sa che ogni parola ha perso il suo peso specifico. Ferretti scrive con un vocabolario ridotto all’osso, in cui ogni termine è una bomba semantica. Dietro quelle poche sillabe si intravedono biblioteche intere: Marx, Debord, Majakovskij, Pasolini, Cioran, filtrati da un’Emilia dove l’ideologia è una cadenza fonetica, un gesto della mano, un accento. I testi non spiegano nulla: insinuano. Non ti dicono cosa pensare, ti fanno sentire in colpa per aver pensato qualsiasi cosa. E mentre la sinistra italiana perdeva ogni orizzonte e si aggrappava ai suoi ultimi editori di riferimento, loro scrivevano versi che sembravano arrivare da un partito fantasma, un Politburo del sottosuolo, il Comitato Centrale dei dannati. Oggi sembrano scritti per il tempo che verrà, non per quello che è stato. Ecco perché, riascoltandoli oggi, non sono datati: sono postumi. Come quei telegrammi spediti troppo tardi, che arrivano quando tutto è già successo eppure ci obbligano a rileggerlo daccapo.

Il cielo sopra la cavea è terso, ma qualcosa puzza di gas. Come se l’ideologia avesse lasciato una scia, un odore di carne da mensa e bandiere lavate troppe volte. Eppure i CCCP sono ancora lì, bestie da palcoscenico in vita vivente. Fedeli alla linea. Ultima chiamata. In mezzo ai titoli di coda di un Paese che riesce a ricordare solo di dimenticare tutto, la loro sola presenza puntuale e in formazione completa è già una contraddizione sufficientemente potente.

Giovanni Lindo Ferretti è sempre stato il volto, la voce e la faglia sismica dei CCCP. È il punto in cui la parola diventa detonatore, dove ogni frase – anche la più semplice – assume a turno il tono di una sentenza tombale o di un’esortazione metafisica. Sul palco è un sacerdote impaziente, ma dietro quella voce scorticata c’è un pensiero affilato come una lama da pane: l’idea che la musica sia solo un pretesto per incarnare pensiero. Ferretti è un poeta ossessivo, attratto dalle macerie linguistiche, dai detriti ideologici, dai simboli consumati. Il suo stile è un collage post-marxista con miniature medievali, un montaggio dialettico tra apocalisse e misticismo. Se negli anni ’80 indossava l’uniforme del filosovietico per sabotare l’egemonia liberale, oggi veste i paramenti dell’ultracattolico per disturbare l’idolatria del nichilismo fluido. L’effetto è identico: stona. È dunque ancora punk. In una società che si inginocchia solo per i selfie, Ferretti si inginocchia per davvero, con la schiena a pezzi di settantunenne. E in un panorama culturale dove ogni parola è sospetta e ogni affermazione va spiegata, attenuata, contestualizzata, lui dice “Dio” senza virgolette perché, come quarant’anni fa, continua a scegliere la parola che più intimamente infastidisce chi comanda.

Foto: Andrea Amadasi

Ferretti da solo non sarebbe bastato, giacché ogni visione ha bisogno di una forma. E qui entra in campo Massimo Zamboni: l’anima silenziosa del gruppo, il costruttore di ponti musicali tra il punk e l’Est, tra la ballata contadina e il rock germanico, tra il rumore e la melodia. Le chitarre zamboniane definiscono l’unico paesaggio in cui Ferretti può alzare coerentemente la voce. La sua scrittura musicale è minimale, essenziale, devastante. Non cerca certo virtuosismi, semmai agibilità strutturale. Come certi progettisti brutalisti, alza muri sonori imponenti, che però lasciano passare l’aria. Dopo la prima fine dei CCCP, è stato lui a tenere viva la fiammella politica del progetto, continuando a esplorare la memoria, il territorio, la Resistenza, la colpa. È rimasto il compagno sobrio, mentre Ferretti si avventurava nei deserti della fede, della montagna e del rosario. A vederli di nuovo insieme sul palco, sembrano ancora una coppia inscindibile: il predicatore e il geometra. Due modi diversi di non dimenticare.

Annarella Giudici è il dogma incarnato dei CCCP. È molto affascinante, di fascino stranamente aristocratico e perturbante. È stata definita “l’elemento femminile”, ma sarebbe come dire che Maria è un personaggio del presepe. Canta raramente, non suona, qualche volta parla, ma presenzia sempre. Ed è una presenza che inchioda, che spiazza. In un mondo che ancora confonde l’impegno con la serietà, Annarella la Benemerita Soubrette si presenta in scena vestita da crocerossina, da casalinga, da Vergine muta, da santa socialista, da icona svanita in una foto di famiglia del dopoguerra. Si muove poco. Nella sua figura perlopiù muta c’è tutto il trauma della sinistra italiana: il moralismo, il sacrificio, la bellezza tenuta a bada, il bisogno spasmodico di una figura materna che non parli ma interceda. Quando alla fine della scaletta si sfila il cappello per pochi secondi, mostrando un cartello funereo con la cifra -6 (il conto alla rovescia verso l’ultimo concerto, a Taormina), basta un suo sguardo per ricordarci che i CCCP non sono mai stati solo una band, ma anche una religione e lei, Annarella, ne è stata la Venere deviata.

Foto: Andrea Amadasi

E infine c’è Danilo Fatur, l’Artista del Popolo. Se Annarella è la santa statica, Fatur è il martire dinamico e danzante, l’osceno necessario, il clown rituale che ricorda al pubblico che un corpo non è mai neutro. Le sue performance – ieri ispirate all’ingegneria automobilistica, con cerchioni cromati a mo’ di armatura, e cavetti da batteria come copri-capezzoli – sono il contrario dell’estetica: sono un’apocalisse da cabaret popolare. È come se avessero imbucato un performer dadaista dentro la redazione dell’Unità, e questi avesse deciso di mettervi radici. Fatur non è ironico: è grottesco, e per questo potentissimo. Il suo fisico, esibito fino alla volgarità, non è un atto di esibizionismo, ma una forma di militanza fisica, un’imprecazione fatta carne. Ogni suo gesto sul palco è un’interrogazione alla platea: siete ancora disposti a essere disturbati?

Con Annarella e Fatur, i CCCP compongono una specie di mecha semiotico perfetto. Non erano sufficienti i testi, e neppure la musica: ci volevano anche due corpi come i loro. Lei ieratica e lontana, lui esposto e ridicolo. La tenerezza e l’abisso. Il silenzio e lo sputo. E oggi, più che mai, sono le due immagini che ci ricordano quanto questo gruppo abbia capito tanto, prima di tutti.

Nel 2025, essere CCCP, e cioè essere punk e italiani, non significa più resistere al sistema: ma resistere all’oblio, che è perfino più difficile. Significa portare una poetica radicale dentro un sistema che, se va bene, la ospita, la fotografa e poi la archivia come un’eco impossibile in mezzo ai palazzi borghesi.

Chi c’è, nel pubblico? I reduci, certo. I figli dei reduci, forse. E chi ha scoperto Ferretti su YouTube, con gli occhiaie profonde e lo sguardo da santone in pensione. Forse, ancora, c’è l’Italia che vuole credere – o far finta di credere, per una sera – che esista una cultura alternativa, anche quando siede ordinatamente, anche quando fa la fila per un tramezzino artigianale. La cavea è il luogo perfetto per questa recita collettiva: anarchia sotto controllo, rivoluzione in fascia serale, dissonanza debitamente amplificata e bilanciata in stereo.

Foto: Andrea Amadasi

Negli anni ’80 il pubblico dei CCCP era una falange disordinata e rumorosa di studenti extraparlamentari, autodidatti dell’anarchia, disillusi precoci e fanatici delle controculture, gente che si dava appuntamento nei centri sociali non per “fare community”, ma per stare al freddo a parlare di Gramsci e Bauhaus con la stessa naturalezza con cui oggi parliamo di Labubu e Ikea. Non esistevano le fanpage, esistevano i volantini bagnati dalla birra, le magliette sbrindellate con la falce e martello cucita male, le cinghiate con i fasci in piazza, e quella modalità tutta emiliana di essere punk con la compostezza di Zamboni e la rabbia dei Clash.

C’è qualcosa di ironico — e toccante — nel vedere ventenni scatenarsi sui riff dei CCCP, senza aver vissuto la rivoluzione mai partita, ma decisi a farla loro, almeno per un concerto. Il loro pogo è una cerimonia frustrata eppure sincera. Non hanno ereditato gli ideali dei centri sociali né l’odio verso il sistema: sentono un vuoto che cercano di riempire, scuotendosi come si scuote un nodo interiore. In quel movimento viscerale, sembra dissolversi la linea temporale: scaricano la giovinezza altrui e la mettono fuori in versione remaster. Non hanno vissuto il collasso del Muro, ma sanno che tutto continua a sfarfallare e lo urlano, con la foga di chi non sa più a cosa aggrapparsi — e forse per questo aggrappandosi a un pugno di parole durissime scritte decenni e decenni fa.

(Piccola nota di colore: mentre i CCCP declamano A ja ljublju SSSR verso una platea romana di travertino, a qualche centinaio di chilometri più a nord Jeff Bezos si sposa a Venezia, con un ricevimento da Doge del capitalismo con gondole noleggiate a peso d’oro. Da una parte, “Produci, Consuma, Crepa” intonato da un pubblico che ha smesso di crederci ma non di cantarlo; dall’altra, “Aggrega, distribuisci, rinasci” in abito scuro, con vista Canal Grande. L’Italia, come sempre, sta nel mezzo).

Il punk non era fatto per vincere: era fatto per perdere in partenza restare e restare latente, come quelle scritte sui muri che non si cancellano più, neanche con la meglio idropulitrice del decoro urbano. Come se il punk fosse stato in fondo post-punk fin dal primo vagito. I CCCP, ora come allora, sono restati. Anche se non è più Berlino Est, ma Roma Nord. Anche se non è più la rivoluzione, ma il suo cartellone estivo.

Ferretti, alla fine, saluta con un inchino ironico, impercettibile. In cuor nostro vorremmo che fosse in pace con sé come un Papa che forse ha smesso di credere nei dogmi, ma non nel rituale. Poi si volta e se ne va.