Nel parcheggio dell’Estragon si è alzata la nebbia e c’è un sacco di gente. Si beve birra in bottiglia, ci sono cartoni di pizza vuoti sulle auto, c’è un gran macchinone che ha aperto le portiere e alzato il volume. Un ritornello tantrico invade l’area fiera di Bologna, la voce di Niccolò Contessa risuona come annuncio aeroportuale. “Stare sempre così, avere cose pratiche in testa, i soldi per mangiare, i dischi i videogiochi e basta”. Si crea un gruppo di persone attorno all’auto, sconosciuti si abbracciano e il circolo si infittisce. Cantano e ballano attorno alla vettura, il concerto è finito da un po’ ma non si direbbe: nessuno sembra essersene accorto, o comunque nessuno sembra volere davvero andarsene.
Che poi, una volta andati, per il prossimo potrebbero passare altri dieci anni. Il timer si è azzerato, e non è piacevole ammetterlo. Perché a sparire ci si deve abituare, ma anche ad aspettare. È appena finita la data d’esordio del nuovo tour de I Cani, erano passati nove anni dall’ultimo. È il 2016, io sto per fare la maturità, sono una rockstar, non ho ancora incidentato lo scooter, e tutto procede nel migliore dei modi nel migliore dei mondi possibili.
Come nel 2016, arrivo ai concerti in ritardo. Sento un boato mentre cerco il biglietto, corro ma Io – la traccia di apertura di Post mortem, l’ultimo album della (non)band romana uscito a sorpresa lo scorso aprile – è già iniziata quando entro nel club brulicante. Sold out oggi, domani, dopodomani, e ancora altre due volte. Sold out anche a Roma, per cinque sere. E un po’ dappertutto in realtà. C’era tutta una comunità che aspettava silenziosamente il ritorno live del progetto di Niccolò Contessa, e la si vede qui stasera, scalpitante e commossa.
Lo aspettava da prima che Guglielmo ci insegnasse che I Cani son meglio delle persone che dicono che I Cani son meglio delle persone. Prima che da uno stadio di periferia Marcello sostenesse che anche I Cani sono froci. Prima che alla vicepresidenza del Consiglio ci fosse un ministro ossessionato dai nostri amici a quattro zampe o – a seconda dei post – dalla cinofila. Se la legge “Salva animali” è in realtà volta a diminuire i tempi di attesa tra gli album de I Cani, ci scusiamo immediatamente e ritiriamo la deriva specista. Siamo sicuramente contrari al maltrattamento e l’abbandono di Niccolò Contessa.

Foto: Giuseppe Maffia
La Door Selection stasera all’Estragon è piuttosto lasciva, non c’è dress code – Halloween è alle spalle – e ci sono un po’ tutti, i soliti, quelli che «cazzo sono dieci anni che sto aspettando sto momento». Ci sono i falsi nerd con gli occhiali da nerd, le anoressiche alla moda e fuori moda, i falliti e i delusi. Ci sono le coppie che si godono il concerto tenendosi strette. Lui sta dietro, essendo più alto. Si sono conosciuti al Pigneto nel 2015, ad un concerto in cui lui cantava. Le ha fatto conoscere I Cani, e ora stanno insieme. Ci sono i depressi, i frustrati, c’è chi fa reflex digitali (che più tardi metterà su Flickr), ci sono gli emo riciclati e tutti gli altri. Insomma, i soliti, ci siamo capiti.
Il locale è colmo e, come ad ogni live nel bolognese, si vedono le stesse scene routinarie. Le bariste che non ci provano con me. I fuorisede che ci provano con le bariste, coi soldi dei padri e le consumazioni nella tasca di dietro (dieci euro in cambio di un Long Island gratis). Appoggiato al muro dell’Estragon c’è un tipo identico a Vasco Brondi (o Lucio Corsi?) che ci prova con la ragazza di qualcuno. Il tour di Post mortem inizia nel giorno dei santi e avvicinarsi ai musicisti sembra impossibile: nove anni sono lunghi, e non è che arrivi in ritardo e puoi pretendere di arrivare sotto cassa, e mi pare sacrosanto. C’è un cerchio di luci sul palco – struttura inedita per un club come l’Estragon a cura del designer Martino Cerati – che conferisce alla formazione una strana aurea tra la corona di luce e la navicella spaziale, tagadà sacro e alieno.
Sul palco sono in sei – Valerio Bulla, Simone Ciarocchi, Francesco Bellani e Marcello Newman, tutti rigorosamente arruolati da Niccolò tramite annuncio – e, da come suonano, pare che abbiano passato gli ultimi nove anni a far nient’altro se non provare questo set e a non vedere l’ora di portarlo finalmente live. Ai synth e alle tastiere, ormai immancabilmente Suri, Andrea Suriani, che tra un mix di Elodie e un master di Tony Effe trova ancora il tempo di tornare alla sua vita precedente, quando faceva i suoni ai Gazebo Penguins. Clear the agenda e rieccolo in tour con Niccolò. E, obiettivamente, tutto suona da disco di platino.
I visual a cura di Galattico Studio seguono una scaletta variegata, che ha come scheletro l’ultimo album, ma ripercorre tutta la discografia di Contessa, da I pariolini di diciott’anni, a Calabi Yau, alternando magistralmente i must dei vari Glamour, Aurora – da cui una splendida versione grunge di Sparire – e Il sorprendente album d’esordio de I Cani, che comunque, se magari non sorprende più, di certo non stanca.

Foto: Giuseppe Maffia
Da lontano Niccolò è irriconoscibile. Ma anche da vicino. Mi era capitato di incrociarlo, qualche mese fa, a El Galactico, ospite a sorpresa al festival dei Baustelle. Dietro le quinte, al tavolo della stampa a cena, si scommetteva su quale potesse essere il segretissimo e preannunciato ospite. Il collega più sveglio aveva fatto notare che Contessa era un candidato plausibile. La mia vicina di cena giurava di aver sentito un uomo calvo con cappellino parlare romano. Ma non era mica sicura che fosse lui, e a noi quella storia del cappellino non ci aveva mica convinti.
All’improvviso panico tra la stampa: nessuno era sicuro di saper riconoscere uno dei frontmen cardine di quello che fu l’indie italiano. L’uscita discografica più importante del 2025 era senza volto. Io di certo non l’avevo riconosciuto, invece lui era lì – nascosto in piena vista – ad assaggiare il vitello tonnato al tavolo dietro al mio. E ora lo guardo là in fondo, che – timido timido, un po’ gobbetto, senza quasi pronunziare parola –, me le suona tutte e si mangia il palco per due ore, con tre microfoni, la tastiera, il vocoder, due chitarre e una foga rara. Non si capisce chi aspettava con più urgenza chi: il pubblico lui, o lui la dimensione del live. L’energia e la massa (che in realtà sono la stessa cosa) è incontenibile.
Ed è strano: c’è chi salta in altissimo, chi poga, chi fa stage diving, chi non sa cosa fare, chi vuole solo limonare, chi non riesce a fare i video perché tutti si spingono ed è un’onda compatta, dall’ultima alla prima fila. Una risacca lunga nove anni, e i brividi vengono su, dalle gambe al petto. Sull’ultimo pezzo, anche Niccolò per un attimo si abbandona all’acqua e si lancia sulla folla fradicia: «Ho toccato la testa di Niccolò Contessa» sento urlare dietro di me. Brava – penso io – porta fortuna.
Beh insomma, io ascolto I Cani da quando ho quindic’anni e non riesco a riconoscere i tratti di Contessa. Voglio vedere che connotati ha, che espressioni fa quando canta, e decido di raggiungere il palco. Ora: io non lo so come faccia, se sia una sua capacità innata, una scelta, una questione di luci, ma più mi avvicino al palco più mi è impossibile distinguerne i lineamenti. Mentre canta Davos pare Zerocalcare. All’attacco di Una cosa stupida, di profilo, ricorda Lord Voldemort. In Aurora è Maccio Capatonda. Non ci salto fuori e rinuncio al riconoscimento facciale, mi dico che va bene così, mi ripeto: «Vedi, Iacopo, la gente non è il mestiere che fa, o i vestiti che porta, le scarpe che mette, la faccia che ha». Distolgo lo sguardo e mi godo un concerto finalmente generoso. Poi, però, mi ritrovo comunque a cercare il suo nome su Google, a mezzanotte, per vedere se ci sono foto della sua faccia per poterlo riconoscere sul treno, così, se un giorno lo incontro in stazione, posso salutarlo. Mi farebbe un gran piacere.
Se sei nato nella seconda metà degli anni ’90 e sei cresciuto nella bolla hipsterica dell’indie, quando aveva ancora senso chiamarlo così, il regalo più bello che puoi ricevere è un biglietto per il nuovo tour de I Cani. A me è successo per la data del 25 novembre a Milano. Quest’anno Natale arriva un mese prima, avevo pensato. Anche se poi ti capita di doverci andare prima per lavoro e un po’ ti senti in colpa, perché per te quello era proprio un bel regalo, e così ti sembra di rischiare di rovinartelo un po’, di consumarlo appena. Ma poi quando ti ritrovi in un parcheggio a fine concerto a cantare maledetta sfortuna con degli sconosciuti – anche se dovresti solo andare a casa a scrivere questo articolo – realizzi che non vedi comunque l’ora che arrivi Natale, per rifare tutto da capo.
Perché in fondo l’unica, davvero, l’unica vera nostalgia che ho, è non aver sentito I Cani live prima. Quindi tocca recuperare.













