Ho visto Fulminacci a Santa Marinella | Rolling Stone Italia
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Ho visto Fulminacci a Santa Marinella

Sul palco il cantautore (insieme a una band) suona come un veterano ma ha lo spirito del ragazzino in gita. Il suo live è un cortocircuito tra passato e presente, perfetto per un pubblico davvero trasversale

Ho visto Fulminacci a Santa Marinella

Foto: Luca Perazzolo

La prima volta che avevamo parlato di Fulminacci – quando ancora non se ne conosceva neanche il vero nome, e il fatto che stesse per pubblicare un LP con Maciste Dischi al più poteva far pensare, erroneamente e ai più distratti, a un figlio minore della wave post Gazzelle – lo avevamo definito un giovane vecchio. Ed era e resta un complimento, ovviamente. Due anni dopo, con già un paio album di inediti alle spalle e la partecipazione all’ultimo Sanremo, siamo sempre lì; solo che ora ha spalle larghe e personalità più a fuoco, tanto che è soprattutto dal vivo che mostra la bella distanza che lo separa da mode e colleghi coetanei.

Io l’ho incontrato ieri sera, in concerto a Santa Marinella (ospite di Lazio Sound, il contest per giovani musicisti promosso dalla Regione Lazio), in una data già di per sé speciale perché organizzata sulla scia – appunto – di Santa Marinella, la ballata con cui è andato all’Ariston, quella ambientata nello storico luogo di villeggiatura per romani, diviso dall’Aurelia e storicizzato da Il sorpasso, a circa 60 chilometri dalla capitale, là dove Roma diventa “una città di mare”, città grande composta da tante altre, piccole.

«Però non tratta una storia mia personale, ma di una coppia di amici», racconta. «Tra l’altro, entrambi sono presenti in platea a questa data, mi emoziono a cantargliela. Scrivendola, diciamo che mi sono appropriato della loro storia. Ed è una storia d’amore classica, eh, in cui però questa cittadina gioca un ruolo fondamentale. Ecco: se dovessi sintetizzare il senso delle mie canzoni, direi che descrivono una vita qualsiasi, quotidiana; e mi stupisco sempre di come la gente finisca, ascoltandole, a condividere con me questa “normalità”. A esibirmi, è come fossi fra amici; fra gente uguale a me, che la pensa nel mio stesso modo».

Foto: Luca Perazzolo

Ma quello di Fulminacci non è it-pop qualunquista, con riferimenti faciloni alla vita di tutti i giorni ed elettro-pop da tre accordi in croce. Non lo è su disco, non lo è tantomeno dal vivo per tecnica, intenzioni e resa, quando mette in scena uno spettacolo che è l’ennesima prova di precocità, un’ora e mezza di canzoni di cui due bis, un paio di (già) classici richiesti da tutti, le code strumentali, il minimo di gioco di luci. «E poi», aggiunge, «è tutto suonato: ci tenevo fosse così». Alle sue spalle, mentre imbraccia la chitarra acustica, si dispone infatti una band – chitarra elettrica, basso, tastiere varie, batteria – che detta le coordinate di un pop d’autore che elettrifica e aggiunge sfumature ai pezzi in studio, tenendo a mente soprattutto le venature acustiche dei pezzi del debutto de La vita veramente (2019) e la melodia più educata dell’ultimo Tante care cose. «Che tra l’altro», mi spiega, «al suo interno ha canzoni scritte pensando già ai live. La verità è che si scrive Fulminacci solista, ma si legge gruppo. Mi piace la dimensione corale, a più strumenti, che riusciamo a darci dal vivo, specie perché i pezzi in origine nascono tutti alla chitarra, li scrivo da solo». Merce rara, tutto ciò, da queste parti di nuova musica italiana.

E quindi anche per ciò, per quanto liquidi la questione con un «mi sento gli anni che ho», l’artista romano (che è classe 1997, non scordiamo) dal vivo è un cortocircuito fra contemporaneità e carta d’identità. Cantautore d’altri tempi insomma, non imbolsito né vintage, autoironico che sa scherzare coi momenti morti e leggero eppure anche assoluto nerd. A partire dal look con la salopette, fino allo spirito, che nonostante odori un po’ e pure legittimamente di teen, quando sul palco lo mostra come una sorta di geek della canzone d’autore che resta comunque easy. È tecnico, studiato, è umile e spigliato; e guarda a riferimenti démodé, come il Jovanotti di Lorenzo 1994, il romanticismo di Samuele Bersani e la scuola del Locale dei ’90, ovvero le parole crociate di Daniele Silvestri e l’umorismo di Max Gazzè. Bene, con credibilità. Come canta a un certo punto in Forte la banda – un saliscendi di cinque minuti che non a caso apre il concerto, e dice molto della preparazione e la voglia di non essere uno dei tanti – “mi piace la musica, quella dei grandi”.

Però ai grandi questo genietto pieno di idee e colori sfumati, con canzoni a loro modo mature e complesse, piace? A giudicare dalle facce, anche, sì. «Sicuramente il target in cui vado più forte è quello dei coetanei, gli universitari. Però ci sono pure persone di 60 anni, che credo si godano la parte più “tecnica” dei miei brani. Per non parlare dei bambini, ché quando li intercetti è sempre un buon segno». Confermo, guardando una platea in cui spiccano anche gli urletti e i «ti amo!» e i «sei bellissimo!» insieme a una signora di mezza età con la borsa con su scritto il testo di Santa Marinella. Anche per questo, non direi che sia un live per chi ne sa – né che sia solo il suo target – piuttosto un’occasione per dimostrare come la non-banalità sappia lo stesso coinvolgere un pubblico trasversale.

Foto: Luca Perazzolo

La gente canta – «mi sorprende come non sfuggano neanche i pezzi meno spinti dalle promo», dice alla fine dello show, dopo averle suonate pressoché tutte senza vistosi cali di scaletta – e lo fa sentire a casa (dice: è sempre Roma anche a Santa Marinella) mentre cambia faccia fra brani che dribblano luoghi comuni melodici e tematici, mescolando il quotidiano a dei surreali plot twist, un lessico non scontato a una ritmica di spessore e una malinconia mai plastificata. Saltano i bimbi su Canguro, ma non è che gli adulti stiano fermi. In chiusura il rituale annunciato e acclamato di Santa Marinella, prima dei bis con la misconosciuta La fine della guerra e la tarantella di gelosia di Tommaso, benedetta dal pubblico come pezzo-simbolo, anche più di quello che gioca in casa.

E mentre lo vedo – Fulminacci, 24 anni ancora da compiere – che suona da veterano pur tenendo lo spirito del ragazzino in gita, i «daje» del caso, il non prendersi sul serio, con un repertorio già forte e interiorizzato dai suoi, ripenso a Cesare Cremonini. Nel senso: all’inizio non ci rendevamo conto di quanta e quale fosse la bravura nel comporre 50 Special da neanche maggiorenne, Vieni a vedere perché a 20, Marmellata #25 a 24. Sottovalutato, sì. Ecco, Fulminacci poteva sembrarci uno dei tanti miracolati dalla botta d’attenzione generale per il nuovo pop italiano; ma ha talento e studio e personalità per stare in piedi da sé, anche da così giovane. E, al contrario di tanti coetanei, è qui per restare anche senza numeroni. Altro che scorciatoie. Vedere (dal vivo) per credere.

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