Yard Act, la recensione del concerto alla Santeria di Milano | Rolling Stone Italia
Verrà la morte, ma non stasera

Gli Yard Act dal vivo sono “ace top mint boss!”

La rock band più verbosa e pensosa d’Inghilterra è anche una delle più divertenti da vedere in concerto. “Dov’è la mia utopia?”, domanda James Smith in una canzone. L’abbiamo intravista ieri alla Santeria di Milano

Gli Yard Act dal vivo sono “ace top mint boss!”

James Smith degli Yard Act alla Santeria di Milano

Foto: Mattia Zoppellaro

Un tizio s’allontana dal pogo sotto al palco, si gira dando le spalle alla band, alza le braccia e le allarga a v come se volesse dire a tutta la Santeria: ma la sentite anche voi che roba? Intanto sul palco ci sono uno che canta dell’onere di trovare un senso alle cose, un chitarrista che suona come un pazzo e due coriste-ballerine che sembrano la versione ironica delle Ikettes. È tutto bellissimo.

Uno dei concerti più divertenti che può capitare di vedere di questi tempi è quello dai verbosissimi, cinici, disincantati Yard Act. Bel paradosso o forse no. James Smith dice che da quando ha smesso di bere ha cominciato a investire tutte le sue energie nel tentativo di rendere felice il pubblico. E forse c’entra la musica del secondo album Where’s My Utopia?, non più un’opera da “post-punk’s latest poster boys” anticapitalisti, ma da band che vuol farti pensare e ballare.

Salgono sul palco introdotti da The Man Who Sailed Around His Soul degli XTC. Sono in sette: oltre a Smith, il chitarrista Sam Shipstone (bravissimo), il bassista Ryan Needham, il batterista Jay Russell e i tre membri aggiunti, il tastierista e sassofonista Christopher Duffin e le coriste e ballerine Lauren Fitzpatrick e Daisy J.T Smith che danno allo show un tocco da vecchio spettacolino soul, ma rivisitato col giusto senso dell’umorismo. A inizio concerto Smith promette una cosa tipo «real fucking good time». È uno di parola.

Siccome una parte consistente delle canzoni di Where’s My Utopia? ha a che fare coi dubbi di Smith circa natura del suo mestiere, su quello che è diventato dopo il successo del primo album The Overload, sull’illusione che la vita da musicista ti risolva i problemi, sul pericolo insomma d’essere diventato come l’uomo che ha navigato attorno alla sua anima di quella canzone là, vien da dire che ieri sera a Milano gli Yard Act hanno mantenuto le aspettative cantando la paura di non mantenere le aspettative. E l’han fatto senza troppe menate intellettuali, introspettive, musicali. E che sollievo sentire qualcuno che mette in scena le proprie contraddizioni. Lo show è un miscuglio di cinismo, sincerità, ironia, incazzatura, stupidità, gioia, sfogo, come se nella vita non si potesse essere seri fino in fondo (sacrosanto).

Foto: Mattia Zoppellaro

Hanno tutti facce da nerd, tranne il chitarrista (l’ho scritto che è bravissimo?) che potrebbe essere un tagliagole dei Bad Seeds. Smith si muove in modo scoordinato e divertente. I suoi suonano una specie di funk-punk che mette assieme Beck, Gorillaz e LCD Soundsystem, giusto per dare qualche riferimento. La musica diventa a volte frenetica e irresistibile, come nella coda di Dead Horses sulla deriva nazionalista nel Regno Unito. Praticamente tutte le canzoni sono migliorate e irrobustite rispetto ai dischi. È roba fa muovere le gambe e migliora l’umore. Mica poco.

Smith spara i testi a una tale velocità che di solito devi risentirli o rileggerli due volte per essere sicuro d’aver capito bene. Sul palco, riesce a porgerli al pubblico superando la barriera linguistica. A proposito, pare francamente entusiasta, si sforza di dire qualche parola in italiano, afferma che la nostra lingua è la migliore al mondo, «fuck the French». Forse conosce i complessi della nazione, di sicuro la sua band conosce la dinamica, alleluja, le coriste danno spettacolo, c’è un po’ di teatrino e c’è del talento musicale, c’è voglia di proteggerti per un’oretta o poco più dalle schifezze di cui parlano certe loro canzoni. Altroché overthinkers, come li definiscono nel Regno Unito. Restare fermi quando suonano è impossibile.

Dopo We Make Hits, la confessione delle proprie ambizioni accompagnata da una risata, arriva il momento della ruota, un espediente su cui Elvis Costello ha costruito un tour molti anni fa. Viene fatta salire sul palco, una ragazza, tocca a una certa Valeria, che fa girare una piccola ruota per scoprire quale pezzo sarà eseguito tratto dal vecchio EP Dark Days. Da quel momento in poi il concerto subisce un’accelerazione, come se tutto stesse precipitando a una velocità sempre più sostenuta verso il finale, a partire da Witness (Can I Get A?) che scatena il pogo.

Arriva poi Down by the Stream, che è il ricordo volutamente esasperato di un atto di bullismo del cantante e dei suoi amici nei confronti di un ragazzo sordo – grazie al cielo, non tutti mettono in scena il proprio carattere virtuoso, sai che noia altrimenti. La confessione finale della canzone è accompagnata da una cacofonia elettrica, mentre il cantante alza la mano col palmo aperto come dire: ok, sono colpevole. Resta immobile, parte la musica di Dream Job e Smith comincia a muovere la mano a ritmo, su e giù, e attacca a cantare l’ennesima canzone che parla con cinismo ma anche intelligenza del mestiere di musicista pop e che per ritornello ha l’elenco ironico di superlativi affibbiati alla musica del gruppo: “ace top mint boss!”. Gli Yard Act sono così, non sai mai dove finisce la parte seria e dove inizia la rappresentazione divertita. E il bello è che sono davvero ace top mint boss.

Foto: Mattia Zoppellaro

Tutto precipita, dicevo, verso Payday e The Overload, dal primo album, ormai inni che scatenano un pandemonio. Dopo questo uno-due micidiale, la canzone sul cambiamento climatico A Vineyard for the North abbassa la temperatura (ops). Il primo bis 100% Endurance sembra quasi offrire la morale della serata e anche un po’ dello spirito degli Yard Act, mentre The Trench Coat Museum è un delirio electro quasi trascendentale, un finalone con Smith che maneggia un sampler portatile e Murkage Dave, che torna sul palco dopo aver aperto il concerto, che canta “take me higher” come i cantanti soul, R&B e funk anni ’70.

Sono passate 16 canzoni e 75 minuti dall’inizio di concerto, bastano e avanzano per tornare a casa sudati e felici e rincuorati dall’esistenza di qualcuno che ha ancora una cultura rock vera e l’intelligenza per cantare la contemporaneità senza ricorrere ai soliti luoghi comuni sul riscatto e alle favolette sull’empowerment. Gli Yard Act ti dicono: non prendete esempio da noi, ma ballate con noi sull’assurdità delle nostre vite. Per parafrasare 100% Endurance, la morte verrà a prenderci tutti, ma non stasera.

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