Gli Smile sono una buona e una cattiva notizia per i fan dei Radiohead | Rolling Stone Italia
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Gli Smile sono una buona e una cattiva notizia per i fan dei Radiohead

Impazienti di sentire il seguito di ‘A Moon Shaped Pool’? Dovrete aspettare: abbiamo visto la band di Thom Yorke, Jonny Greenwood e Tom Skinner in live streaming e abbiamo capito che è qui per restare

Gli Smile sono una buona e una cattiva notizia per i fan dei Radiohead

Thom Yorke nel live streaming degli Smile

Che ci fossero i presupposti per lasciarsi prendere dall’entusiasmo, ormai era chiaro già da un po’. Prima ancora che gli Smile annunciassero l’arrivo di un album e pubblicassero due singoli ufficiali, avevamo potuto osservare la band provare alcuni brani in uno studio-mansarda da cui si riusciva a scorgere la luce del mattino su Oxford, in un clima di intimità simboleggiato dalle Birkenstock bianche di Thom Yorke. Lunghe dirette Instagram che riproponevano alcuni pezzi eseguiti anche nella primavera 2021 durante il Live at Worthy Farm organizzato dal Glastonbury Festival, un debutto virtuale che, tuttavia, non aveva risposto ai tanti quesiti sull’identità della band e sulla reale dimensione del progetto.

Per i fan dei Radiohead tutto ciò che prolunga l’attesa per l’arrivo di un nuovo album è insopportabile, persino nuova musica concepita dagli stessi componenti dei Radiohead rappresenta un doloroso compromesso, anche se è difficile da ammettere. Quando è arrivata la notizia della formazione di una nuova band con Thom Yorke e Jonny Greenwood insieme a Tom Skinner dei Sons of Kemet – in un periodo in cui almeno i più ottimisti attendevano l’annuncio di novità dai Radiohead – in molti ci siamo chiesti come interpretarla. Fino a quel momento erano state a fatica tollerabili le carriere da solisti, ma una nuova band composta dalle due menti principali dei Radiohead e un nuovo talentuosissimo batterista, che cosa voleva dire?

La risposta più concreta non poteva che arrivare dai tre live consecutivi che gli Smile hanno eseguito a Londra tra la sera di sabato 29 e la mattina di domenica 30 gennaio di fronte a un pubblico in carne ed ossa, sebbene esiguo e ordinatamente seduto, e a una platea virtuale collegata in streaming che, se non altro, ha potuto seguire in contemporanea lo show. Questo a quanto pare è il massimo che possiamo chiedere a un concerto negli anni ’20 del ventunesimo secolo.



Il set di poco più di un’ora eseguito dalla band ha chiarito definitivamente una cosa: gli Smile non sono né un concept project, né una semplice joint venture, sono una band vera e propria, con una dozzina di pezzi diversi tra loro e qualche tratto già riconoscibile. I già menzionati singoli You Will Never Work in Television Again e The Smoke ci avevano fornito finora una versione parziale del sound della band, quello più pop-rock, fatto di tanto drive e groove. Due caratteristiche che rimangono centrali nella produzione della band, ma che assumono un significato diverso se inserite nel contesto ben più ampio a cui abbiamo potuto assistere.

La band deve il proprio nome a una poesia di Ted Hughes, come ci ha tenuto a specificare Thom Yorke, il “sorriso” non è una risata divertita, ma «del tipo che ti mente ogni giorno». Per questo non potevano mancare tratti disturbanti e spigolosi, a tratti perturbanti. Arrivano nel piano bizantino che apre Panavision, che sembra provenire da un angusto piano bar alla periferia dell’inferno. Lo stesso spirito diabolico che ammanta The Same, che gioca a sua volta con un piano ossessivo, smorzato da dosi massicce di sintetizzatore. Questo brano ha accompagnato anche i titoli di coda al termine dello show in streaming, suonando ancora più contorto e complesso nella produzione e dandoci un indizio non trascurabile: dobbiamo aspettarci un sound ancora più complesso su disco e questa è forse la più grande differenza tra i Radiohead e tutto ciò che accade alle loro pendici. Nessun progetto parallelo è mai stato in grado di raggiungere il grado di complessità portato dai Radiohead sul palco e la fedeltà del sound dal vivo con quello su disco. Nonostante Jonny Greenwood abbia deciso di raggiungere definitivamente l’onnipotenza suonando con una mano il pianoforte e con l’altra l’arpa in Speech Bubbles, la formazione ridotta sul palco sacrifica inevitabilmente dei livelli consistenti di sonorità della produzione di Nigel Godrich. Mancano poi per esempio la tuba di Theon Cross e la tromba di Byron Wallen che sappiamo per certo aver contribuito all’album, per cui chissà quanto ancora possiamo aspettarci.

L’altra caratteristica che torna in più brani sono i riff claustrofobici e cacofonici che Greenwood pizzica in maniera quasi impercettibile sulle corde con la precisione di un algoritmo in brani come Thin Thing e Just Eyes and Mouth che si perde tra infinite scale concentriche andando a braccetto con la batteria corrosiva di Skinner.



Il trio sul palco circolare passa da una postazione e l’altra, Yorke e Greenwood si alternano al basso, alla chitarra e al piano, mentre Skinner fa delle escursioni ai synth e di tanto in tanto appare nelle seconde voci, un sintomo di libertà e armonia che conferma quanto la band faccia sul serio, oscillando istericamente tra mood diversi, per quanto coerenti con il flusso generale. Waving a White Flag si potrebbe quasi definire un pezzo dark wave con quei sintetizzatori spettrali, mentre la sorprendente We Don’t Know What Tomorrow Brings ha tutte le caratteristiche di un pezzo post punk fatto e finito.
Thom Yorke come sempre varia tra testi di protesta, di critica sociale e flussi di coscienza introspettivi. C’è ancora tempo per perdersi in ballate soavi e riverberate come Open the Floodtages e Free in the Knowledge, che era già circolata in questi giorni in un’esibizione acustica dal vivo che è già un piccolo cult.

Ci sono tutti i presupposti per farsi prendere dall’entusiasmo. La brutta notizia è che mi sa tanto che per i Radiohead ci sarà da aspettare ancora un bel po’ perché gli Smile non sono solo di passaggio.

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