Gli Smile non hanno le canzoni, embè? | Rolling Stone Italia
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Gli Smile non hanno le canzoni, embè?

In un'epoca in cui i musicisti sono messi sempre più sullo sfondo, ieri sera al Fabrique di Milano la band di Thom Yorke, Jonny Greenwood e Tom Skinner ci ha ricordato senza cadere nei soliti luoghi comuni l’importanza del rapporto tra suono e gesto. Non è musica instagrammabile e va bene così

Gli Smile non hanno le canzoni, embè?

Thom Yorke al Fabrique di Milano con gli Smile

Foto: Sergione Infuso/Corbis via Getty Images

A un certo punto, durante il concerto di ieri sera degli Smile a Milano, m’è parso che le strisce led poste in orizzontale dietro alle spalle dei musicisti componessero delle lettere dell’alfabeto. M’è sembrato di distinguere una M, una B, forse una E. Ho persino cominciato a chiedermi: è un codice da decifrare? Che cosa stanno cercando di dirci? È durato un attimo. Così come si erano apparentemente composte, quelle che mi sembrano lettere si sono scomposte, ricondotte a forme astratte. Mi è sembrata una specie di metafora dell’effetto che fa la musica degli Smile dal vivo, del modo in cui invita l’ascoltatore a cercare un senso che resta in definitiva inafferrabile. Il senso della musica è la musica stessa.

Quel che voglio dire è che potete cercare di decifrare i testi cantati da Thom Yorke, e a volte non è difficile farlo come nel caso di The Same, primo bis al Fabrique, o del riferimento al bunga bunga in You’ll Never Work on Television Again. Potete leggere tutte le annotazioni di Genius e compulsare le interviste in cerca d’indizi, ma il senso ultimo di questa band non sta lì. Risiede invece nel groove creato dai tre, soprattutto da Jonny Greenwood e dal batterista Tom Skinner. Sta in certi riff ripetitivi da cui però non vorresti più uscire. Sta nel modo in cui Free in the Knowledge diventa un rombo elettrico che si fonde a A Hairdryer. Sta nel modo in cui il trio costruisce il ritmo, una meccanica basata su movimenti di precisione. Questo pensavo mentre Yorke lasciava brevemente il palco a «Jonny e Tom»: gli Smile sono una jam band stilizzata per l’era digitale, con la Guida galattica per gli autostoppisti al posto dei joint.

In un’epoca in cui la cultura popolare è diventata trasparente perché dev’essere autoesplicativa e accessibile a chiunque, gli Smile ci hanno ricordato ieri sera il potere dell’incertezza che circonda le canzoni, quel margine d’inconoscibile che le rende affascinanti. In un mondo in cui sta svanendo il rapporto tra la musica che sentiamo e le persone che la producono, e nei concerti pop i musicisti sono messi sullo sfondo, a lato, persino dietro le quinte perché evidentemente non sono considerati funzionali allo spettacolo, in questo mondo gli Smile ci hanno ricordato l’importanza del rapporto tra suono e gesto. A questo siamo arrivati nel 2022: a elogiare un gruppo perché suona. E i tre (quattro, contando Robert Stillman, ospite in alcuni pezzi) senza alcun virtuosismo da vecchia scuola suonano un po’ di tutto. Maglietta bianca e bretelle, Yorke è apparentemente quello che si diverte di più, presenta qualche canzone, parla in italiano, sorride. C’è un elemento di puro divertimento nell’esibizione degli Smile e chissà, forse anche il sollievo di non dovere portare in scena un concertone memorabile, come accade per i Radiohead.

E del resto non c’era aria da grande evento ieri sera al Fabrique, che era comunque pienissimo. Fuori una lunga fila per via dei tripli controlli, degni d’una canzone paranoica dei Radiohead: prima il metal detector, poi l’ispezione di zaini e borse, infine il controllo del biglietto. Dentro, il pubblico apprezza, applaude, reagisce, ma senza fanatismi. La mattina dopo non vedo grandi discussioni sui social. È più animato YouTube, coi video della serata. Lo vedete, è stato un concerto con la musica al centro, un po’ nerd, e quindi niente accese discussioni sul nulla, niente slogan trasformabili in meme, niente commenti iperbolici, niente canzoni instagrammabili.

Va anche detto senza girarci troppo intorno che gli Smile non hanno grandi canzoni, non almeno secondo i canoni tradizionali. Non ci sono pezzi memorabili in A Light for Attracting Attention, non ce ne sono tra quelli extra album che hanno suonato al Fabrique, tra cui Bending Hectic che ha debuttato pochi giorni fa a Montreux. E del resto c’è una lunga tradizione anche nel rock, una tradizione a cui il trio pare riallacciarsi, di musica che funziona, eccome, facendo a meno delle canzoni, per non dire del fatto che il concetto stesso di canzone rock è cambiato negli ultimi vent’anni, anche col contributo di un paio di musicisti che erano sul palco del Fabrique.

Sono certo che se avessero grandi pezzi il pubblico che ieri sera riempiva il locale sarebbe stato più contento, forse anche più partecipe, tanto più se ne avessero tirata fuori una dei Radiohead. Ma il punto di un concerto degli Smile non sono le composizioni. È l’intensità e il dinamismo con cui costruiscono i pezzi. Forse è questo che rende gli Smile interessanti e in definitiva diversi dai Radiohead: fanno musica che prende lo stomaco e le gambe, non la testa.

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