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Geniale testardo fragile Roger Waters

L’arte di ricontestualizzare le canzoni per raccontare in modo fazioso e appassionato la contemporaneità: la recensione della prima data del tour 'This Is Not a Drill' al Forum di Assago

Foto: Ricardo Rubio/Europa Press via Getty Images

Per dire il concerto che è stato: a un certo punto Roger Waters ha dato ordine alla regia audio di far partire un ticchettio. Rappresenta il Doomsday Clock, l’orologio dell’apocalisse che misura i minuti che ci separano dalla fine dell’umanità. Quand’è stato ideato nel 1947 dagli scienziati del Bulletin of the Atomic Scientists segnava le 23:53. Oggi tra guerra in Ucraina e crisi climatica segna le 23:58 e 30 secondi. E insomma siamo stati tutti lì, zitti per pochi istanti irreali a sentire quel tic tac interrotto da una canzone che racconta l’attimo che precede un’esplosione nucleare. Non vai a vedere Roger Waters per divertirti. Ci vai per spaventarti.

Quando un musicista supera i 40 o 50 anni di carriera di solito trasforma la nostalgia in un business e accontenta il pubblico dandogli quel che vuole. Se è sufficientemente audace o pazzo, presenta nuovi progetti, assumendosi il rischio del fallimento. Roger Waters ha scelto una terza via: ricontestualizza il suo repertorio usando la rappresentazione scenica per dare un significato contemporaneo alle vecchie canzoni. È quel che fanno da anni a Broadway e Hollywood: prendono il repertorio di un grande nome pop dei Novecento per creare nuove narrazioni. Di solito vengono fuori vicende familiari, d’amore o di riscatti personali. Roger Waters compie un’operazione simile per sollecitare sentimenti di rabbia e compassione. Ti frega. Vai al concerto per farti un viaggio nostalgico nel passato e ti ritrovi a pensare che forse Obama è un criminale di guerra, vai per sentire l’assolo di Comfortably Numb e ti ritrovi una versione della canzone senza risoluzione né assolo, in cui capisci che la persona diventata insensibile alle cose del mondo sei tu.

Voglio dire che This Is Not a Drill, a cui Waters ha aggiunto credo ironicamente il sottotitolo First Farewell Tour, non è solo l’ennesimo viaggio nel repertorio del «genio creativo dei Pink Floyd» e nemmeno una sorta di autobiografia in musica, coi commenti dell’artista che si materializzano sugli schermi, dalla scoperta del rock con Syd Barrett all’esaurimento nervoso a Abbey Road. Non è nemmeno lo show più spettacolare di Waters. È anzitutto un racconto fazioso e appassionato della contemporaneità che inizia con la platea occupata da un’enorme struttura a croce (siamo o non siamo a 90 secondi dall’estinzione?) che funziona da megaschermo a otto facce e che alla fine del primo pezzo s’alza svelando Waters e la band che lo accompagna, una notevole macchina da musica: Jonathan Wilson chitarre e alla voce; Dave Kilminster alla chitarra; Jon Carin a tastiere, chitarra e voce; Gus Seyffert al basso e voce; Robert Walter alle tastiere; Joey Waronker alla batteria; Seamus Blake al sax; Shanay Johnson e Amanda Belair ai cori.

Roger Waters al Forum durante ‘Sheep’. Foto Rolling Stone

Il brutto del palco centrale è che quando l’azione si svolge dall’altra parte ti senti escluso. Quando però i musicisti s’avvicinano li vedi come raramente capita e capisci, ad esempio, che Waters ha i movimenti, il passo, i tratti dell’anziano. Non ha mai parlato col pubblico e comunicato anche col fisico come oggi, ma lo fa in modo non particolarmente aggraziato. Del resto al centro dello spettacolo non c’è il corpo del musicista, come da tradizione rock’n’roll, ci sono le sue idee. È il bel contrasto che sta alla base del concerto: la rappresentazione scenica extralarge e potente da una parte, l’aspetto senile di quest’uomo di 79 anni che nell’inedita The Bar celebra tra le altre cose la morte del fratello maggiore, per poi andare verso il finale assieme struggente e festoso di Outside the Wall.

Il brivido supplementare stasera è dato dalle controversie politiche di cui è protagonista oggi più che mai Waters per via della sua posizione sulla guerra in Ucraina, di cui attribuisce parte della colpa alla Nato, e sullo stato di Israele, a tal punto da essere accusato d’antisemitismo. L’ha pagata con la cancellazione dei concerti di Polonia e Germania, una soppressione della libertà d’espressione che diventa ancora più incredibile dopo aver visto il concerto. La risposta di Waters non è arrivata in uno dei tanti brevi discorsi che precedono le canzoni, ma durante Déjà Vu. L’ha fatta con una kefiah attorno al collo, mentre sopra la sua testa compariva la scritta gigantesca “fanculo l’antisemitismo”. Quando appare la faccia di Joe Biden e la scritta “War criminal, just getting started…” gli applausi sono flebili, ma sentiti, né più né meno come quando Waters cita The Final Cut. Alla fine, credo, la gente è qui per sentire la seconda facciata di The Dark Side of the Moon e per essere falcidiata dal mitra del cantante alla fine dell’inno della rockstar fascistoide In the Flesh. Come dice quella celebre frase, non sono d’accordo con tutto quello che Roger Waters dice, ma pagherei 100 euro di biglietto affinché possa dirlo accompagnato da una grande band.

In ogni caso, il bombardamento di messaggi è pressoché continuo, dal ricordo delle vittime della polizia in tutto il mondo al simbolo del coronavirus SARS-CoV-2 che appare durante Sheep. Oggetti di lusso ruotano sullo schermo mentre Waters chiede se è questa la vita che desideriamo. È il teatro degli orrori del capitalismo predatorio. È tutto tanto, troppo semplificato? Ma certo, però questo è sempre stato il rock, non è un saggio politologico, è roba che deve prenderti allo stomaco. E comunque qualcuno che dica certe cose, che faccia vedere con un sottofondo musicale potente la morte dei giornalisti della Reuters in Iraq e che ci spieghi che possiamo vedere quel video grazie a Chelsea Manning e Julian Assange, qualcuno che ci dica che forse non siamo sempre dalla parte del giusto come pensiamo, qualcuno che metta in dubbio le nostre certezze, qualcuno tanto testardo da continuare a pensare al rock come musica che dà voce a chi voce non ha, ecco, qualcuno come Roger Waters ci deve pur essere.

Roger Waters al Forum. Foto Rolling Stone

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