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Fred Durst vestito da cowboy e altre storie dall’Aftershock 2023

Limp Bizkit, Guns N’ Roses, Queens of the Stone Age, Korn, Tool hanno animato il festival californiano dove i cinquantenni (e non solo) fanno musica (anche) per i ventenni, e va bene così

Foto: Enzo Mazzeo

Quando lasciamo i prati polverosi di quest’ultima edizione dell’Aftershock per avviarci alle auto, insieme a una folla scomposta che si disperde nella notte californiana, una ragazza ci avvicina chiedendoci qual è la band ci è piaciuta di più. Vengono citati i Guns N’ Roses, che avevano appena terminato il loro set, ma anche i Tool, che non sbagliano un colpo. «Per me invece i migliori sono stati i Korn», dice lei. «Loro sono una categoria a parte».

Quando i Korn rompevano gli schemi del rock e diventavano una delle band-simbolo della metà degli anni ’90, lei non era con tutta probabilità nemmeno nata. Ma non importa, perché se allora il rock era ancora musica suonata da ventenni per un pubblico di ventenni, e che tutt’al più i cinquantenni li faceva incazzare, oggi sono per lo più proprio i cinquantenni (quando va bene) a suonare il rock, per un pubblico indefinito, imprevedibile e di qualsiasi età.

L’Aftershock, come la gran parte dei grandi raduni rock di tutto il mondo, si regge infatti su una manciata di band venute alla luce almeno tre decenni fa: tra gli headliner di quest’anno ci sono gli Avenged Sevenfold, i Tool e i Korn, appunto. Tutti e tre i gruppi sembrano all’apice della forma, e non è una cosa scontata per chi ha una storia così lunga alle spalle. I Sevenfold sono maturati molto negli anni, e oggi propongono uno spettacolo di assoluto livello, i Korn continuano a mietere vittime grazie all’istrionica padronanza del palco di Jonathan Davis e un sound micidiale, che la band interpreta senza una sbavatura, mentre i Tool sono una categoria a parte, e questa volta lo diciamo noi. Come abbia fatto una band musicalmente sublime ma allo stesso tempo anche estremanente complessa a raggiungere un tale successo di massa è quasi inspiegabile.

Korn. Foto: Enzo Mazzeo

Tool. Foto: Enzo Mazzeo

Appena sotto in scaletta troviamo Stone Temple Pilots, Godsmack, Incubus, Queens of the Stone Age, Limp Bizkit e chi più ne ha più ne metta. Fred Durst, il leader dei Limp Bizkit e vera e propria icona degli anni ruggenti del nu metal, ha da tempo messo da parte braghe larghe e cappellino da baseball ma l’attitudine cazzara è rimasta la stessa: questa volta si presenta sul palco in tenuta da cowboy, e lo spettacolo che offre la band è perfettamente a tema.

Tra uno show e l’altro ci aggiriamo nel grande parco che ospita il festival, il Discovery Park di Sacramento, capitale amministrativa della California. A parte cibo e bevande sovrapprezzo, a cui siamo ormai abituati (tipo 17 dollari per una Coors Light in lattina e 40 per una pizza margherita) e un gran caldo, quello sì, piuttosto imprevedibile a ottobre in questa regione, rimaniamo inebriati dall’odore intenso di marijuana, che si respira ovunque. Siamo in California, uno degli stati free per eccellenza, ma quest’anno ci sono un paio di aziende che fanno prodotti a base di cannabis fra gli sponsor del festival. Il livello di sballo è dunque decisamente superiore alla media.

Josh Homme dei Queens of the Stone Age. Foto: Steve Thrasher

Limp Bizkit. Foto: Enzo Mazzeo

Tolti i grandi nomi, assistiamo con molta curiosità alle esibizioni di band decisamente più giovani che molti indicano come il futuro: i Turnstile, per esempio, che ormai suonano a ridosso degli headliner dei maggiori festival del pianeta. Il loro hardcore punk venato di rock dal vivo è micidiale. Apprezziamo anche i Bad Omens e gli I Prevail, più melodici e riflessivi i primi, decisamente pesanti e incazzati i secondi, ma entrambi sulla bocca di tutti. E non restiamo indifferenti di fronte alla performance dei britannici Wargasm, band che strizza l’occhio tanto al rock quanto all’elettronica e che vede nella procace cantante/bassista Milkie Way uno dei suoi punti focali (e non solo per la microgonna leopardata che sfoggia in questa occasione).

Riusciamo anche ad avvicinarci ad uno dei palchi più piccoli per assistere all’esibizione degli Sleep Token, altra band inglese che in patria ha fatto molto parlare di se: si collocano in uno spazio indefinito tra post rock, alternative e progressive metal, suonano incappucciati e avvolti nell’oscurità, e a dispetto di un percorso tutt’altro che ordinario hanno raggiunto risultati sorprendenti: lo scorso marzo hanno annunciato una data alla Wembley Arena di Londra e gli oltre 12 mila biglietti sono stati polverizzati in 10 minuti. Insomma, ormai vale tutto.

Wargasm. Foto: Enzo Mazzeo

Tim Armstrong dei Rancid. Foto: Enzo Mazzeo

Tra le band più “stagionate” che, in barba ai soliti discorsi sul passaggio di testimone, rimangono fondamentali se si vogliono fare certi numeri (nel rock l’equivalente di Taylor Swift o Travis Scott ancora non si vede), seguiamo con interesse i Cult, guidati dall’inossidabile duo Ian Astbury-Billy Duffy, i Megadeth e soprattutto i Guns N’ Roses. Axl Rose e soci venivano da una data importante come quella del Power Trip, che appena due giorni prima li aveva visti condividere il palco con i maggiori pesi massimi in campo heavy, e anche nel contesto della quarta e ultima giornata dell’Aftershock, a trazione decisamente alternative, attirano davanti al main stage la folla più consistente vista finora.

Fanno sorridere quelli che vi si accaniscono contro dopo aver guardato un paio di video su YouTube. La verità è che questa non è mai stata una band impeccabile e non ha mai voluto esserlo. I Guns N’ Roses hanno nell’imprevedibilità uno dei loro maggiori punti di forza. Axl può salire sul palco senza voce e la sera successiva rendersi protagonista di una prestazione memorabile. Slash può steccare un assolo e subito dopo stregare il pubblico con quel tocco unico e inimitabile. E il resto della band non è da meno (Richard Fortus, tanto per dire, è un chitarrista mostruoso).

Axl coi Guns. Foto: Guns N’ Roses

Duff McKagan. Foto: Guns N’ Roses

All’Aftershock siamo fortunati e troviamo un Axl quasi in stato di grazia, che parte alla grande, poi cala leggermente sui falsetti ed esplode da metà concerto in poi con una prestazione esemplare. Slash è in palla. Duff percuote il suo basso dispensando grandi sorrisi. Si respira rock, quello vero, sporco, sudato. Nessuno è qui per svolgere il compitino e la cosa si percepisce perfettamente. Parliamo di gente che dalla reunion in poi (otto anni buoni) gira il mondo in continuazione riempiendo stadi senza soluzione di continuità. E lo fa proponendo brani in gran parte vecchi di 30 anni. Anche per più di tre ore di fila. A gente così non possiamo che volere bene.

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