Florence + the Machine, una divinità in concerto a Milano | Rolling Stone Italia
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Florence + the Machine, una divinità in concerto a Milano

Una performance ultraterrena della cantante che, tra lezioni d'inglese con il pubblico e benedizioni, ci spinge a chiederci: "Ma tutto quello che ho appena visto l'ho sognato o è successo davvero?"

Florence + the Machine, una divinità in concerto a Milano

Florence + the Machine

Foto di Kimberley Ross

La prima cosa che viene da pensare agli spettatori – e soprattutto alle spettatrici – della trionfale data milanese di Florence and the Machine, è “Qualunque siano le vitamine / gli integratori salini / i centrifugati pressati a freddo che prende Florence Welch, li voglio anche io”. Là dove noi comuni mortali arriviamo arrancando sotto il palco dell’Area Expo, la location del festival Milano Rocks, visibilmente già spompate dall’afa e dalla camminata lungo l’ex Decumano, lei, dopo quasi un’ora e mezza a cantare l’anima, saltare, ballare, correre, arrampicarsi sulle transenne e incitare il pubblico in preda a una sorta di trance mistica, appare ancora fresca come una rosa. E questo nonostante, come dirà agli irriducibili fan che non vorrebbero lasciarla andare via, “Sono stanchissima, vi prego, abbiate pietà di me. Siamo in giro a fare concerti da quasi due anni, questa è una delle ultime date del tour, ho bisogno di andare a dormire, sono umana anche io!”.

In effetti non si direbbe: c’è un che di quasi soprannaturale in questa trentatreenne inglese di indole mite e riservatissima (al punto che, per sua stessa ammissione, fino a pochi anni fa aveva bisogno di bere parecchio prima di un concerto per riuscire a vincere la timidezza). Quando arriva in scena, a piedi nudi, vestita di un abito di seta color cipria talmente impalpabile che sotto le luci dei riflettori la fa apparire quasi nuda, sembra una moderna Venere di Botticelli che sorge dalla spuma del mare. Non a caso, qualcuno dal pubblico le lancia corone di fiori, altri la adorano come la dea che è, cercando di ottenere la sua benedizione per imposizione delle mani ogni volta che passa vicino a loro.

Foto: Kimberley Ross

Lei accetta graziosamente gli omaggi di tutti, accarezza e consola i suoi supplici e guida sapientemente questa specie di cerimonia collettiva, danzando ad occhi chiusi con la chioma al vento ogni volta che la musica che le ispira spontaneamente una gioia incontenibile. Nonostante il sentore divino, però, c’è grande umanità e informalità nel suo modo di rapportarsi alle decine di migliaia di persone accorse per vederla. Durante quell’inno generazionale che è Dog days are over, prima invita tutti ad abbracciare lo sconosciuto più vicino e a gridargli il proprio amore – una specie di versione moderna e meno ingessata del classico “Scambiatevi un segno di pace” – e poi li esorta a mettere via i cellulari per “condividere un’esperienza reale”, e a cazziare gli spettatori che non si adeguano.

“Vi farò una lezione di inglese britannico, quello che parla la regina: se vedete qualcuno tirarlo fuori, urlategli ‘Put that fucking phone away!‘” esclama. Le lezioni di lingua proseguono, anche se all’inverso, con Cosmic Love, che dedica al pubblico dell’Italia, “Una terra che mi è particolarmente cara perché da piccola ho vissuto per un po’ a Firenze con mia mamma, che è una studiosa del Rinascimento”. Non ha mai imparato l’italiano, però, così si fa suggerire dai fan la parola che sta cercando. “Ho scritto questa canzone while I was drunk, come dite voi qui? Ubriaca? Ecco, ho imparato una cosa nuova!”.

Ma l’aspetto più straordinario del concerto, e per fortuna, è comunque la musica. Perché la band, quell’entità che va sotto il nome di “The Machine” e che tutti sembrano sempre ignorare quando si parla di Florence, è un ensemble di otto elementi così affiatato e illuminato da sembrare quasi irreale, tanto per cambiare. E perché la voce di Florence è eccezionale in ogni senso: per estensione (le note che arriva a toccare in You got the love o in Moderation sono praticamente impossibili per chiunque altro), per delicatezza ed espressività (Jenny of Oldstones, la canzone tratta dalla colonna sonora de Il Trono di Spade, dal vivo è da brividi), per potenza (il finale, che non poteva essere che Shake it Out, è travolgente).

Insomma, quando alla fine si riaccendono le luci e noi donne e uomini medi, acciaccati da una stanchezza nella media dopo una settimana nella media, sciamiamo nuovamente lungo il Decumano, sciabattando e sbuffando per la lunga strada che ancora ci separa dalla metro, non possiamo fare a meno di chiederci: “Ma tutto quello che ho appena visto l’ho sognato o è successo davvero? È possibile cotanta perfezione o siamo stati tutti vittima delle allucinazioni di un rito lisergico collettivo?”. Qualunque sia la risposta, è bello tornare a meravigliarsi, ogni tanto.

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