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Firenze non dimenticherà mai Eddie Vedder

Il frontman dei Pearl Jam torna a Firenze Rocks per riprendere un discorso iniziato due anni prima. Un concerto per "migliaia di intimi", come se una bolla avesse separato i fan e il cantautore dal mondo esterno

Firenze non dimenticherà mai Eddie Vedder

Eddie Vedder

Foto: Luigi Rizzo

Superato l’ostacolo Sheeran, il vermiglio cantautore protagonista la sera precedente, è ora di tornare a fare sul serio. Nel pomeriggio ci penseranno gli inglesi Nothing But Thieves a far muovere le persone, conquistandosi le simpatie di buona parte del pubblico fiorentino. Le canzoni le hanno, e dal vivo funzionano meglio che su disco, soprattutto quando la band sceglie di togliere il freno a mano per pestare sull’acceleratore. Ma il pubblico del Firenze Rocks comincerà ad animarsi realmente solo con l’arrivo dell’irlandese Glen Hansard, che si alternerà tra chitarra e piano (con un campionatore di supporto) riscuotendo una vera e propria ovazione: il cantautore terminerà il concerto (con This Gift) in lacrime, visibilmente commosso dal calore del pubblico, probabilmente inaspettato per forme e dimensioni.

Ma è inutile girarci attorno, oggi tutti sono qui per Eddie Vedder.
La democrazia delle magliette parla chiaro: si vedono solo t-shirt dei Pearl Jam, se fosse un risultato calcistico saremmo dalle parti del 5-0 che le azzurre hanno rifilato alla Giamaica, qui in versione rock e unisex. Vedder torna a Firenze dopo solo due anni da quell’esibizione trionfale che, in questo stesso spazio, gli valse il record di biglietti venduti per un suo concerto solista (45mila, per la precisione). Prima di salire sul palco, sul maxischermo appare un bigino, una sorta di istruzioni per l’uso, che intimano al pubblico di non usare i telefoni, o altri tipi di simili device, per fare foto o video (spoiler: non lo rispetterà nessuno) data la natura intima dello show di Eddie.

Glen Hansard. Foto: Luigi Rizzo

Ecco, se l’idea di ‘show di natura intima’ in quello che è diventato uno dei festival più grandi d’Italia vi appare come un ossimoro, sappiate che le vostre perplessità erano anche le mie.
Al termine del concerto, però, ho in qualche modo cambiato idea.

Quando Eddie sale sul palco, è come se sulla Visarno Arena calasse una bolla, in grado di separare i fan ed il frontman dei Pearl Jam dal mondo esterno.
Non c’è spazio per altro.

Anche il palco è minimale: giusto qualche chitarra, un organo (con sopra due stivali argentati) e, ai lati, delle figure femminili con, sulla testa, una sorta di cappello formato da birilli. Non servono presentazioni, sembra quasi di riprendere il discorso interrotto due anni prima: Eddie si siede di fronte all’organo e attacca con Cross the River. Poi si alza, imbraccia la chitarra, sussurra ‘1,2,3..1,2,3’ e immediatamente chiunque, anche quelli che passavano di lì per caso, si mette a cantare Elderly Woman, con l’inevitabile effetto karaoke, ma dall’indubbio impatto emotivo. Sul maxischermo compare una vecchia tv che proietta scariche di statica durante l’intro di Immortality (brano, pare, dedicato a Kurt Cobain), per poi riempirsi di vita e immagini con l’incedere del pezzo. È una coincidenza, ci mancherebbe, ma esattamente 30 anni fa, in questo giorno, usciva Bleach dei Nirvana, involontario piromane di un’incendiaria rivoluzione musicale.
“Ero nervoso – afferma Vedder emozionato – ero nervoso per dover suonare qui, perché questa città e questo paese hanno dato tantissimo a me e alla mia band. Volevo solo tornare qui e restituire qualcosa”.
Il pubblico è in delirio.

Eddie Vedder. Foto: Luigi Rizzo

Ed è comprensibile, non capita spesso di vedere una star spogliarsi della propria aura di irraggiungibilità per mettere in mostra le proprie paure, facendosi forza condividendo le proprie insicurezze. È il turno di Just Breathe, dedicata a Franco Zeffirelli, scomparso poche ora prima, e di Wildflowers, dedicata a Tom Petty (‘quanto mi manchi, amico mio’). Nel frattempo Eddie è stato raggiunto sul palco da un quartetto d’archi, che lo accompagna su Black. L’ukulele elettrico rende unica la sua versione di Should I Stay or Should I Go (sì, proprio il classico dei Clash), mentre la versione acustica di Porch rimanda con la mente allo storico Unplugged per Mtv del ’92. C’è poi Alive, in versione per solo archi, che serve da intermezzo, ed ecco ricomparire Vedder, al quale presto si unirà anche lo stesso Hansard, per duettare su Sleeping by myself, Good Hope, Society e Hard Sun. Finale classico con un’altra cover, quella Rockin in the Free World di Neil Young che le marmellate color perla eseguono al termine dei loro show da un tempo immemore.

La bolla esplode, il tempo riparte e in giro ci sono solo sorrisi. È difficile parlare di concerto intimo in una situazione del genere, eppure è esattamente quello che è successo. Anzi, forse sarebbe più corretto considerarla come una rimpatriata fra amici, con una chitarra per cantare al cielo vecchie canzoni in una sera d’estate. Grazie Eddie, ci rivediamo presto.

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