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Fat Fat Fat 2019, elettronica e ciauscolo nella campagna marchigiana

Un weekend che diventa un esempio da seguire, tra il meglio della scena club internazionale in consolle e una location che dovrebbe insegnare qualcosa ai grandi festival italiani

Foto di Daniele Zappalà

You Can’t Download The Experience“, un manifesto, quello dell’edizione 2019 di Fat Fat Fat, che suona molto più roboante di quanto può sembrare. Non soltanto, infatti, rappresenta appieno i tratti somatici di quello che ormai è diventato un festival gemma nello scenario dell’elettronica italiana, ma ritrae – forse inconsapevolmente – lo stato attuale degli eventi musicali nella Penisola.

Meglio partire con ordine. Quando parliamo di Fat Fat Fat, si raccontano territori solitamente lontani dai radar patinati dei grandi festival, attraverso la provincia marchigiana, tra la campagna vicino Corridonia o il borgo di Morrovalle. Insomma, non propriamente l’epicentro del clubbing italiano. Tuttavia l’impresa messa in piedi dagli organizzatori è da lacrime agli occhi perché, se la partenza è affidata all’olandese Carista seguita a ruota dal live da mani nei capelli di Shigeto insieme a Mark De Clive-Lowe e Melanie Charles, allora le premesse per un evento fuori dal comune ci sono già tutte. Si aggiunga poi, e questo è fondamentale, che il concerto del trio non è andato in scena in un auditorium sterile e reiterato da qualsiasi format musicale, né tantomeno in un arido mainstage qualunque, ma nella piazzetta di Morrovalle, location che regala alla musica colori che altrove non riuscirebbe a trovare.

Foto di Daniele Zappalà

E poi il weekend; dopo il jazz della prima serata, il filo rosso che attraversa la black music continua con un back to back atteso per anni da moltissimi dei presenti. Sul palco principale va in scena un’avventura sonora di quattro ore, guidata dalle mani di Motor City Drum Ensemble e Mr. Scruff, leggende viventi della club culture. Il tedesco e l’inglese sfornano una rarità dopo l’altra, diamanti introvabili che trovarli su Discogs equivale a vincere il SuperEnalotto. Dal reggae all’hip hop, dall’afro beat al soul, e poi la disco, la house, fino ai suoni che resero leggendarie le consolle di Chicago e Detroit. Di ottimo livello anche i set successivi – l’asse Verona/ Detroit di Volcov + Kyle Halle e la chiusura affidata al veterano Move D insieme a Optimo –, che tuttavia forse risentono del confronto con il 10+ di chi li ha preceduti. Premio della critica a Lakuti, con il suo set killer di quattro ore nel sound system del Giardino della Sgugola, l’aerea ultragastronomica del festival.

Foto di Daniele Zappalà

Dopo aver inaugurato l’hangover domenicale a Porto San Giorgio, si ritorna sottocassa, perché a Corridonia sono arrivati i pesi massimi del groove, il Faraone Moodymann e l’uomo dallo Spazio Dâm-Funk. Il primo sciabola un mestiere che non ha bisogno di presentazioni – ovvero Moodymann che si diverte a fare Moodymann – il secondo, più coraggioso, improvvisa cantando sui dischi, tanto che il set sembra fatto apposta per i suoi guilty pleasures vocali. Insieme costruiscono una macchina sonora che sembra valicare lo spazio e il tempo, un caleidoscopio che lancia la serotonina dei presenti nell’iperspazio. In chiusura i fuochi artificiali di Antam, top player cui affidare il sipario del Fat Fat Fat, per un set che diventa la ciliegina sulla torta. Anzi, il grasso sul ciauscolo, ovvero la star più luminosa del festival.

You Can’t Download The Experience“, dicevamo, e il suddetto cibo degli dei Made In Marche ne è l’incarnazione culinaria per eccellenza. Perché il rifornimento a base di vodka tonic in un salone buio e immenso, mentre un impianto da centinaia di decibel ci spara addosso bassi a 125 bpm lo abbiamo fatto tutti, lo stesso vale per i festival-piramide umana, sudati e ammassati a ballare gli uni sugli altri. Ma in quanti possono dire di aver azzannato un ciauscolo accompagnato da qualche bicchiere di vino locale accanto a Mr. Scruff, sceso dal palco durante il suo set per ballare in mezzo al pubblico? In quanti, invece, possono portarsi a casa il ricordo di una conversazione alticcia insieme a Motor City Drum Ensemble – giuro, è successo – che dalla politica italiana vira su Musil fino, non si sa per quale ragione, al climate change? Ecco Fat Fat Fat è anche, e soprattutto, questo.

Foto di Daniele Zappalà

Un festival che a un cartellone rubato al Circo Loco preferisce nomi dall’identità stilistica ben precisa, destinati a un pubblico che non è lì per assistere a un red carpet, dj che dipingono in musica il tramonto nella campagna marchigiana senza stonare, dato che al centro del Fat Fat Fat c’è la terra da cui nasce. Infatti, senza far nomi – sarebbe come gettare benzina sul fuoco – basterebbe dare un’occhiata alle sorti recenti dei festival italiani più muscolari, quelli dei mainstage chilometrici appunto, per vedere che, spesso, cercare di portare un’imitazione del Primavera Sound o del Coachella in Italia, alla lunga, non paga. Le distese di sabbia in cui vedere con il binocolo l’ennesimo set di Carl Cox o Solomun, dispersi in un esercito di soldati da cassa dritta, o line up che diventano un calderone in cui buttare generi totalmente opposti tra loro, per certi versi hanno fatto il loro tempo.

Fat Fat Fat, invece, insieme a qualche altra rassegna, ha capito un segreto talmente ovvio da sfuggire agli occhi di molti. Non serve investire cifre da capogiro, non serve districarsi tra amministrazioni comunali spesso sorde quando gli si mette davanti la parola “musica elettronica”. In Italia i laseroni o i ledwall non servono, perché lo sfondo che può regalarti una piazza medioevale o un ex convento sperduto in mezzo ai campi non lo trovi da nessun’altra parte. Se poi ci aggiungi una scelta gastronomica che non ha nulla da invidiare a quella musicale di chi mette i dischi – l’eterno ritorno del ciauscolo – e un clima da grigliatone con gli amici per festeggiare l’arrivo delle ferie, il Fat Fat diventa un esempio da seguire, anche se imitarlo rimarrà impossibile.

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