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Farewell Sir Reginald, ci mancherai

Siamo stati a una delle date londinesi dell’ultima parte del tour d’addio di Elton John. Una macchina del tempo che rafforza una certezza: il rock fa restare giovani

Foto: Cameron Smith/Getty Images

«Ciao Londra. Ci ho messo quattro anni per dirlo, ma di mezzo ci si è messo di mezzo il Covid. E poi la mia anca operata. Ma adesso sono qui e sono felice. E grazie per non avere chiesto il rimborso dei biglietti». 12 aprile, O2 Arena, una delle molte serate da qui all’8 luglio in cui Elton John si congederà dal suo pubblico. L’ultima data sarà a Stoccolma, decisamente lontano da Pinner, sobborgo di un sobborgo di Londra (Harrow, per l’esattezza) dove è nato e cresciuto 76 anni fa. Ma tempo e spazio per questo signore sembrano essere un concetto molto relativo, soprattutto quando si siede davanti a un pianoforte e a una platea composta da 20 mila spettatori come l’altra sera. Un gran bel colpo d’occhio, un pubblico che non si è fatto pregare nel farsi travolgere da una scaletta che ha spaziato tra i classici del repertorio di Elton John, partendo in maniera anche relativamente tranquilla con Bennie and the Jets, Philadelphia Freedom, I Guess That’s Why They Call It the Blues e Border Song, quest’ultima dedicata ad Aretha Franklin che ne aveva fatto una bellissima cover nel 1972 (c’è anche una versione italiana, dal titolo La straniera, cantata dalla mai abbastanza compianta Mia Martini).

Grande inizio, ma il meglio doveva ancora arrivare, sotto forma di Tiny Dancer (ormai indissolubilmente legata alla scena del bus di Quasi famosi). Qui sono cominciati a scendere i lacrimoni, era previsto e scientificamente costruito. Nel frattempo era anche cominciata Milan-Napoli di Champions League, e da bravo tifoso partenopeo ho ritenuto opportuno concentrarmi su altro per non pensare al fatto che non fossi davanti a un 100 pollici a soffrire con alcol e nicotina di supporto.

Quindi, cosa ben più sana, ho incominciato a osservare meglio queste anziane persone sul palco. L’età media della Elton John Band, frontman compreso, è di 70 anni e quattro mesi. Elton sembrerebbe un impiegato delle poste in pensione, se non fosse per gli eccentrici outfit che da sempre lo contraddistinguono. Complice anche l’anca bionica, cammina come un nonno quando vede scendere i nipoti dalla macchina del figlio quando arrivano davanti casa per il pranzo della domenica. Eppure ha ancora una voce da spaccare i lampadari e quelle dite cicciotte volano sulla tastiera come appartenessero a un ventenne che vuole conquistare il mondo. Nigel Olsson, batterista che suona con lui da cinquant’anni, di suo ne ha 74 e potrebbe fare ancora la sua figura come turnista di una band death metal. Ray Cooper, altro storico componente della band, ha la stessa età del capo, con gli occhialini tondi scuri come la pece e un fisico da fare invidia a me, tanto per cominciare, che segno 25 primavere in meno sul passaporto.

Quindi la riflessione mi è venuta spontanea: soldi a parte, e senza pensare a Keith Richards (a cui, vi ricordo sempre, stiamo lasciando un mondo orribile), è evidente che il rock faccia restare giovani. Senz’altro chi lo fa, al netto di sesso e droga, corse in ospedale per overdosi varie rehab e quant’altro. Una volta superata la fase giovanile, suonare quasi tutte le sere le stesse canzoni per una vita diventa una rassicurante routine ripagata dai ricchi cachet e, sì, senza retorica, dal calore del pubblico. Nel caso di Sir Reginald, oltretutto, parliamo di un artista che nel giro di quattro anni, tra il 1970 e il 1974, tirò fuori sette album straordinari (e uno di questi, Tumbleweed Connection, è un vero capolavoro) e una serie di hit che ancora oggi ti prendono alle budella. E non si tratta di effetto nostalgia. L’età del pubblico dell’O2 Arena l’altra sera andava dai 16 agli 80 anni, quando sono partite le prime note di Rocket Man non c’era una persona all’interno dell’impianto che non stesse cantando, trattenendo a stento le lacrime. E lo stesso è successo poco dopo per Candle in the Wind (quella originale, dedicata a Marilyn Monroe), Don’t Let the Sun Go Down on Me (impossibile non pensare a George Michael, come la cantava lui neanche Elton) e via fino al gran finale con Your Song e Goodbye Yellow Brick Road. Reginald va via dal palco portato via da un montascale per disabili con addosso la giacca di una tuta acetata.

Sull’enorme schermo che sovrasta il palco lo vediamo avviarsi non verso un cantiere, ma sulla strada di mattoni gialli. Quando fra qualche mese uscirà di scena per l’ultima volta, saremo tutti un po’ tristi per un pezzo di storia del rock che ha deciso di chiudere la tastiera del piano per sempre. Finito il concerto scopro che il Napoli ha perso. Ma io ho salutato Elton John e sto bene così. E poi, c’è sempre la partita di ritorno.

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