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Esistono poche band come i Pearl Jam

Erano in 60 mila a Imola per il ritorno del gruppo di Eddie Vedder, un rito rock per curarci dopo anni di pandemia

Esistono poche band come i Pearl Jam

Eddie Vedder

Foto: Allen J. Schaben/Los Angeles Times/Getty

Possiamo anche girarci intorno quanto vogliamo, dire che sia tornato tutto come una volta, ma c’è poco da fare: entrare in un’area sconfinata circondati da sessantamila persone, il pubblico più vasto di sempre nel nostro paese per un concerto dei Pearl Jam, inizialmente spaventa. D’altra parte, tra le tante cose lasciateci in eredità da due anni di clausura forzata vi è anche questo: l’idea che il concetto di inimmaginabile sia radicalmente cambiato a livello di sinapsi. Ora niente ci sembra davvero impossibile, soprattutto in accezione negativa. Detto ciò, bastano davvero pochi minuti perché il nostro cervello riesca a settarsi su un meno drammatico “beh ormai che siamo qui, possiamo farci poco” e permetta quella benedetta rimozione capace di non farci passare una serata in preda dall’ansia post agorafobia.

Ho sempre guardato a Eddie Vedder come all’erede naturale di Bruce Springsteen, immaginandomelo ad alternare album con la band e dischi solisti. Proprio come Bruce, tuttavia, è solo dal vivo che ti rendi conto di quanto le sue avventure soliste siano solo scappatelle senza strascichi sentimentali. E non c’entra nulla la qualità degli album, onestamente ormai sotto le aspettative sia quelli che dei Pearl Jam che quelli in solitaria, ma è solo una questione di attitudine, di affinità elettive e di amore sconfinato per il proprio pubblico. Qualcuno si chiede anche se, filosoficamente, non dovrebbero forse esserci i Pixies a chiudere la serata e non loro, ma sono semplici provocazioni. Un conto è riconoscerne l’importanza, un altro perdere il contatto con la realtà.

La verità è che ci sono rimasti pochi gruppi come i Pearl Jam, ultimo anello di congiunzione tra l’epoca d’oro del rock n roll e la nostra, che sembra aver rotto ponti capaci di unire tre generazioni e che alla mia avevano permesso di amare e poter ascoltare senza pregiudizi tanto i Pink Floyd quanto i Sex Pistols o i Ramones, eliminando di fatto preconcetti legati al passato. Ecco, oggi i Pearl Jam rappresentano proprio questo, l’ultimo baluardo di una cultura partita negli anni sessanta e portata coerentemente e con credibilità ai giorni nostri. Senza bisogno di prendere derive stucchevoli alla Bono Vox, ma riuscendo comunque a mantenere quello status che gli riconosciamo da trent’anni (non a caso, una delle prime prese di posizione della serata è proprio contro il recente scempio perpetrato contro le donne americane).

In questo senso, i Pearl Jam non rappresentano solo la nostra E-Street band, ma i nostri Who, i nostri Ramones, oltre che i superstiti di un momento storico che, proprio come per gli eroi del punk, ha visto tutti i suoi protagonisti cadere come mosche. Soprattutto dal vivo, i Pearl Jam hanno poi sempre avuto una caratteristica che può sembrare scontata, ma che scontata non è: quella di saper consolare il proprio pubblico. Se la catarsi di gruppi come Alice In Chains o Nirvana doveva infatti per forza di cose passare da un dolore lancinante, quella dei Pearl Jam ha sempre funzionato all’opposto. E non si tratta solo di temi trattati, spesso dolorosissimi anche i loro, ma del modo di affrontarli.

Proprio per questo, il mega raduno di Imola assomiglia solo fino ad un certo punto a quelli che siamo tornati a vedere con regolarità nelle ultime settimane. Qui non si respira solo voglia di tornare a fare le cose di un tempo, fatte magari con la stessa noia con cui spesso venivano fatte in era pre-covid. Qui abbiamo bisogno di essere curati, quasi a livello sciamanico. Non è semplice svago, due ore per scordarci per un attimo di quello che viviamo ogni giorno, davanti a una band che suona col pilota automatico e recupera un cachet sospeso da due anni. Che prende i soldi e scappa. Qui la sensazione è che la band tragga lo stesso beneficio da noi.

Come per tutti i concerti di oggi, inevitabilmente, i testi delle canzoni finiscono per impregnarsi di nuovi significati e ti rendi conto ancora una volta dell’universalità del linguaggio musicale, che nasce come canovaccio da mutare attraverso la propria sensibilità e quella del tempo in cui viene riprodotto. È però sulle note di Alive che, oggi più di allora, comprendi appieno tutti questi concetti. Nata da un episodio biografico, lascerà sempre una sensazione di conforto, di rivincita e di fortissima aggregazione. È solo così che, magicamente, i Pearl Jam riescono nel miracolo di ridare dignità alla parola assembramento. E, in qualche modo, anche a quella di inimmaginabile.

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