La storia di Eric Clapton è la rappresentazione perfetta dell’uomo che non si arrende di fronte ai drammi, che sembra sul punto di dire basta, ma non alza mai bandiera bianca. Se ripensiamo alle sue condizioni anche solo di cinque anni fa, è difficile comprendere come abbia fatto ancora una volta a tornare il musicista distinto, elegante e preciso che si è visto nelle date del tour giapponese ed europeo che ha toccato Milano il 27 e 28 maggio.
A 80 anni appena compiuti, Clapton non ha forse più voglia di cambiare la struttura di uno show che, di base, è lo stesso da anni e che in fin dei conti permette di ammirarlo in entrambe le forme che l’hanno reso quello che è: apertura e chiusura elettrica e intermezzo acustico che consente al pubblico di assaporare un po’ di magia di quell’Unplugged che resta il suo best seller. Il tutto per quasi due ore di musica che hanno rappresentato una panoramica fedele del suo percorso e delle sue influenze.
Come da copione, Clapton parla pochissimo e sorride anche meno, ma appare in forma smagliante nel suo completo e le sue dita sembrano scorrere sulla Stratocaster meglio rispetto agli ultimi passaggi italiani. L’inizio è affidato a White Room dei Cream, che scalda subito un pubblico già visibilmente colpito dalla serigrafia palestinese che Clapton sfoggia ormai da più di un anno: una presa di posizione silenziosa di gran valore in un momento in cui ancora in pochissimi, al di là di qualche parola di circostanza, hanno il coraggio di assumersi la responsabilità di un atto oggettivamente dovuto. Mentre nel nostro Paese in questi giorni, quasi fuori tempo massimo, si prende in considerazione l’idea di organizzare un concerto a favore della popolazione di Gaza, Clapton continua la sua lotta pacata e senza clamore fatta di gesti come questo e come il singolo Prayer of a Child uscito la scorsa estate e i cui proventi sono stati interamente devoluti alla causa palestinese.
La prima parte elettrica si chiude un po’ com’era iniziata: con una potentissima versione di Sunshine of Your Love che mancava in scaletta da qualche anno e che di fatto dà il via al concerto. I due classici precedenti Key to the Highway e I’m Your Hoochie Coochie Man sono infatti apparsi un po’ spenti, più di mestiere rispetto ai brani della band con cui Clapton ha mostrato al mondo che i canoni del blues potevano trovare una via differente da quella delle origini. La sezione acustica, come sempre, ha rappresentato il cuore emotivo dello show. Accompagnandosi con la Martin, Clapton ha interpretato con profondità Kind Hearted Woman Blues e Nobody Knows You When You’re Down and Out, per poi passare all’intensa Golden Ring e a una straziante versione di Tears in Heaven, vero climax emotivo della serata. Nonostante il passare degli anni, è sempre difficile trattenere la commozione guardando il volto di Clapton contrarsi nel cantare il più inaccettabile dei dolori.
Ancora una volta, la chiusura del set viene affidata a uno dei suoi supergruppi, i Blind Faith, con la malinconica Can’t Find My Way Home. Quando Clapton viene aiutato a togliersi la giacca, il pubblico si scalda. Finalmente i tecnici del suono fanno pace con l’acustica del Forum e Badge spazza via completamente i dubbi sulla sua tenuta fisica. È in questa fase dello show che la band che lo accompagna dà il meglio a livello d’improvvisazione. Al di là dei fidi Doyle Bramhall II e Nathan East, osannati ormai quanto Clapton, a incantare sono Chris Stainton e Tim Carmon, capaci con Hammond e tastiere di dilatare drammaticamente gli omaggi a Robert Johnson Little Queen of Spades e Crossroads.
Prima del bis di Before You Accuse Me, Clapton si è presentato solo di fronte alla sua gente, l’ha fissata e ha alzato sopra la testa la chitarra che oggi non è più solo uno strumento, ma anche simbolo di resistenza, solidarietà o semplicemente un richiamo alla coscienza collettiva.