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Elogio della timidezza: la data zero di Calcutta a Mantova

Siamo stati alla prima del tour del cantautore che segue l’uscita di ‘Relax’. Memetica, ironia, intimità: una sana pausa dal celodurismo della trap

Foto: Giuseppe Maffia

La leggenda della crisi del terzo album vuole che, dopo un primo disco di successo e una scia luccicante che investe anche il secondo, si arrivi a una resa dei conti. Se il terzo è il momento in cui si capisce se sei un fuoco di paglia o no, Calcutta il problema lo bypassa facilmente. Non solo con un tour nei palazzetti tutto sold out ancora prima che uscisse l’album, ma anche con un sorriso compiaciuto mentre il pubblico della prima data a Mantova canta già a squarciagola sul primo pezzo in scaletta, che ovviamente è il Coro alpino che apre Relax.

Poi, vabbè, ci sarebbe anche il fatto che l’ultimo album del ragazzotto di Latina non è il terzo bensì il quarto. Ma è come se quel Forse uscito nell’era pre-Bomba Dischi non influisca nel conteggio, essendo un’opera forse molto lontana dal Calcutta attuale. Tant’è che nella setlist del nuovo tour non c’è manco un pezzo.

«Come sta andando? Non mi pare che stia andando male finora, no?» chiede Edoardo al pubblico dopo una prima infilata di pezzi bella potente, che comprende Due min e Cosa mi manchi a fare. La richiesta di feedback e pareri dalla folla durerà tutto il concerto, che essendo la data zero e in un posto relativamente piccolo (5000 persone di capienza, tipo) alla fine si trasforma in una prova generale ma in presenza di pubblico. «Il prossimo pezzo si chiama… no, non ve lo dico» dice a un certo punto, scatenando una risata collettiva.

Foto: Giuseppe Maffia

È abbastanza chiaro che la sua timidezza cronica sia mancata un po’ a tutti in questi quattro anni di assenza dai palchi. Abituati ormai a un celodurismo trap che onestamente andrebbe estirpato dalla faccia della Terra, è bello ritrovare uno splendido caso umano che preferisce un milione di volte il divano di casa sua al palco. Uno di quei rarissimi casi in cui la musica è effettivamente frutto di un’urgenza impellente di esprimersi e non di scopare o alimentare un chiaro caso di narcisismo. Guarda un po’ se uno deve finire per stupirsi di queste cose.

E poi, vabbè, c’è tutta la parte ironica, che in Calcutta conta quasi quanto il songwriting. Parte fondamentale della natura calcuttiana è il meme, che non solo si dispiega nei visual pazzi proiettati sui megaschermi, ma soprattutto nella discografia, dalle copertine degli album (una a caso) ai testi (“Non ero mai finito a letto con una di destra” is the new “Ho fatto una svastica in centro a Bologna ma era solo per litigare”). Il contesto stesso delle canzoni a volte è un meme a parte, come appunto aprire il disco con un coro degli alpini, che ha le musiche scritte da Laurent Brancowitz dei Phoenix (lol?) e un testo in cui sostanzialmente si percula Sanremo.

La canzone memetica per eccellenza, Oroscopo, la fa in una versione dalla voce robotica stile Daft Punk e dietro a una rete LED calata dall’alto, che permette sia di vedere attraverso che di godere della sagoma di Edoardo ingrandita e iper-colorata. In un’intervista recente un giornalista gli ha chiesto che fine avesse fatto in tutti questi anni. «Ho scritto canzoni per altri, ho visto film, sono stato a casa» è stata la risposta. Ecco che allora la rete LED, più che l’ennesima attrazione di un live molto divertente, sembra diventare piuttosto uno stratagemma per dare al ragazzo una temporanea pausa dal pubblico, come una barriera simbolica che restituisce un po’ di intimità. In effetti, passare da pigiama e Netflix a gilet di pelle e palco davanti a migliaia di persone è un bel trauma.

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