Elisa, luce a San Siro | Rolling Stone Italia
I’m (no) hero

Elisa, luce a San Siro

La cantautrice friulana ha aspettato trent’anni per il primo stadio. Il tempo che ci vuole (cit.) per essere al massimo di sé stessa, in una grande festa con gli amici (spoiler: Jovanotti, Cremonini, Sangiorgi, Giorgia, Ligabue). Ma dove è stata lei a brillare

Elisa, luce a San Siro

Elisa a San Siro

Foto: Giulia Parmigiani

“È una notte da scartare come un pacco di Natale”, e mentre lo canta, a fine concerto, Elisa ha gli occhi che dicono: mi sa che è questa notte qui. A San Siro sembra arrivarci quasi timidamente, «stasera non capisco niente», «non sono brava con le parole», «ho avuto tanta paura di questo giorno», e però «ora sono in paradiso». Nell’era in cui tutti si prendono lo stadio come regali da scartare senza sorpresa, che hai scritto nella letterina solo perché tanto sai di trovarli sotto l’albero, Elisa ci ha messo il tempo che ci vuole, per dirla col titolo di un film bellissimo che è (anche) sulle attese. Ci ha messo il tempo che ci voleva a lei.

Nell’era in cui tutti si prendono lo stadio e devono fare il super show, a Elisa bastano tre schermi e la sua voce da fuoriclasse di ieri e di sempre. E tutto l’Asile’s world – dopotutto, l’intro del concerto è affidata al coro di Gift – che negli anni ci ha consegnato senza clamori. C’è la Madre Terra, e il bastone che chiama la pioggia, gli skate, “Free Gaza”, lo stadio sostenibile, persino la riforestazione di Milano – nella città finto-green, deve pensarci lei: ebbene sì.

Tre ore divise in tre atti che raccontano l’anima di Elisa, di ieri e di sempre anche quella. L’inizio dagli inizi, Labyrinth, e Heaven Out of Hell, e Rainbow, e pure tracce più off come The Waves – ma non off per il pubblico, anche largamente giovanissimo, che le canta tutte, le piange tutte. Poi l’Elisa urban, che ha introdotto quel mondo – innanzitutto a sé stessa – before it was mainstream, con il rock di altre canzoni più periferiche, diciamo così, che questo stadio non ha dimenticato (It Is What It Is, Cure Me).

E poi l’atto corale, gli amici, la festa. Per alcuni sono troppi, ed è troppo sentire ripetere «ti meriti tutto questo»: come se non fosse abbastanza chiaro, come se non fosse sotto gli occhi di uno stadio sold out. Ma si capisce presto che, per arrivare a San Siro nel tempo – e nel modo – che ci voleva a lei, era necessaria anche questa specie di rito collettivo. “Noi siamo uno”, recita il mantra panteista che passa più volte sugli schermi, e per questa notte lo è la musica italiana da fine ’80 ad oggi, attraverso cui Elisa si è formata e che ha formato a sua volta.

Foto: Giulia Parmigiani

Non ricordo un concerto italiano in cui l’omaggio reciproco, lo scivolare da un repertorio all’altro, da un mondo all’altro, sgorgasse così spontaneo, così nitido. Dunque ecco Giuliano Sangiorgi per Basta così e Ti vorrei sollevare, poi Dardust che l’accompagna al piano in Se piovesse il tuo nome e che resta per accogliere Lorenzo Jovanotti, con cui Elisa canta prima il duetto Palla al centro e poi Le tasche piene di sassi. Ma a quel punto al pianoforte c’è Cremonini, e Lorenzo resta con loro per Poetica, e poi dà il cambio per l’altro duetto degli altri due, la nuovissima Nonostante tutto. Elisa canta da chanteuse al pianoforte e insieme guarda da spettatrice, dice «sto cercando non so come di dare una guida a tutto questo», e forse non lo sa ma lo fa, da conduttrice stupita di sé stessa e da tutto quello che le gira attorno, nell’effetto Carràmba! Che sorpresa senza sosta che ubriaca il pubblico – ci sono tutti!

Non finisce lì, arriva Giorgia, introdotta da Elisa con Di sole e d’azzurro. Poi, insieme, La cura per me, e sempre insieme – didascalicamente, opportunamente – Together. Manca la chiusura, e allora fa il suo ingresso l’ultimo cavaliere di questo zodiaco che sembra autogenerarsi sul palco. Il Liga entra su Gli ostacoli del cuore, dove sennò, poi tocca ad A modo tuo, quindi lascia la scena a Elisa da sola, che chiude prima con O forse sei tu, poi con Qualcosa che non c’è.

“Ho scritto su un quaderno ‘Io farò sognare il mondo con la musica’”, canta Elisa quasi vergognadosi, e subito dopo “ho aspettato a lungo qualcosa che non c’è”, e la prima parte della frase fa pensare ancora al tempo che ci è voluto: ma qualcosa c’è eccome, c’era pure prima. È quel qualcosa che Elisa non ci fa dimenticare mai di avere, l’arma segreta di questa no hero a metà tra il nord di Björk (qui sul palco ci sono solo i fiori di loto invece dei funghi) e il nordest che grazie a lei è diventato una nuova direttrice, fondamentale, del cantautorato italiano.

Elisa non ci fa dimenticare chi è, e non se lo dimentica lei stessa. Quando è da sola sul palco e l’anima vola, tra Anche fragile, e una Hallelujah che nessuno ha mai cantato così, e Broken, e Dancing. E Luce, per cui non serve nessuno ad accompagnarla, nessuno a commentare quanto è stato giusto aspettare. Luce a San Siro, questa è facile ma pure inevitabile, finalmente.

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