Ecco com’è Forever Now, il festival per i reduci degli anni ’80 | Rolling Stone Italia
Te li ricordi?

Ecco com’è Forever Now, il festival per i reduci degli anni ’80

Metti una giornata a Milton Keynes dedicata ai vecchi fan di new wave, post punk e dintorni. Istruzioni su come idratarsi, paura perché «è il primo festival che faccio dopo l’infarto» e alle 10:30 tutti a casa

Ecco com’è Forever Now, il festival per i reduci degli anni ’80

John Lydon coi PiL a Forever Now

Foto: Katja Ogrin/WireImage

«Un festival di un giorno per festeggiare la cultura alternativa e la musica, la moda e la letteratura post punk». Dato il buon successo di Cruel World, giunto quest’anno alla quarta edizione tenutasi a fine maggio al Rose Bowl di Pasadena, gli organizzatori hanno deciso di riportare tutto a casa e inaugurarne una versione britannica intitolata Forever Now, in programma domenica scorsa a Milton Keynes. In California gli headliner sono stati New Order e Nick Cave, in Inghilterra i Kraftwerk, primo segnale che sul termine post punk bisogna intendersi.

Un dubbio che, legittimamente, non sembra aver tolto il sonno ai miei compagni di viaggio verso il Milton Keynes National Bowl, location a un paio d’ore da Londra dove nel corso degli anni hanno suonato big come David Bowie e i Queen, Michael Jackson e i Genesis. Sulle magliette dei passeggeri del pullman che mi ha raccolto a Victoria Station abbondano teschi e croci, simboli francamente non presenti nell’immaginario della gran parte delle altre band principali della giornata: dai The The agli Psychedelic Furs, dai Public Image Ltd ai Jesus and Mary Chain. Per non parlare degli Happy Mondays. Insomma, non sono stati integralisti gli organizzatori, perché avrebbero dovuto esserlo le scelte estetiche e soprattutto musicali del pubblico?

Nei giorni precedenti gli organizzatori hanno ripetuto in e-mail mediamente ansiogene spedite ai possessori del biglietto di idratarsi a dovere e applicare più volte la crema solare. Vanno capiti. Le band in cartellone hanno esordito mediamente a metà anni ’80, il loro pubblico non è più giovanissimo. E del resto nella pagina Facebook creata “dal basso” per scambiarsi informazioni c’erano spesso messaggi di questo tenore: «È il primo festival che faccio dopo l’infarto, spero che vada tutto bene». Oppure: «Ma davvero non si possono portare seggiolini? Neanche quelli attaccati al bastone?». Ci permettiamo di scherzare (ma questi messaggi sono veri) solo per sottolineare la principale differenza tra questa pagina e quella, per esempio, che gli appassionati italiani hanno dedicato al Primavera Sound, dove una delle domande più ricorrenti riguarda i modi per introdurre alcol al festival senza farsi beccare all’entrata. Nel caso del Forever Now invece era stato comunicato un assurdo limite di mezzo litro d’acqua da portare con sé, e in molti si chiedevano come fare a introdurla clandestinamente.

Insomma, si sarà capito che il pubblico di questo festival rappresenta una nicchia per età e gusti. Una nicchia piuttosto lontana dal mainstream, in un Paese in cui ragazzini di 16 anni salgono sulla metro con Some Might Say a palla nella cassa e la linea Adidas dedicata alla reunion degli Oasis va a ruba online e nei pochi negozi che la vendono in esclusiva. I Cult e Billy Idol erano mainstream nel 1985, oggi i sedicenni che li conoscono sono un’eccezione.

I palchi sono due. Quello principale, montato nel Bowl e circondato da un anfiteatro verde da cui si vede e si sente bene, e quello secondario, purtroppo sistemato in una specie di parcheggio sterrato. E come se non bastassero i cumuli di polvere che si alzano per tutto il giorno, un non meglio identificato problema tecnico costringe gli organizzatori a tagliare la lunghezza di buona parte dei set in programma. È l’unico problema importante della giornata, che fa sbottare Captain Sensible: «Non ci capita spesso che ci stacchino la spina dopo 35 minuti. È un po’ scocciante, dato che i problemi tecnici non erano colpa nostra. Mi scuso con i fan che non hanno potuto ascoltare l’epica versione di Curtain Call che avevamo preparato».

Detto che ci auguriamo che il prossimo anno la celebrazione della letteratura post punk prevista del programma sia qualcosa di più di un firmacopie di libri sistemati su delle casse di plastica capovolte, e che con tutte quelle magliette in giro (c’era di tutto: dall’Esorcista agli Stone Roses, dal defezionario Peter Murphy, originariamente in cartellone, ai Fields of the Nephilim) si sarebbe potutto spingere un po’ di più sul merchandising, la prima edizione del Forever Now merita un bel 7 d’incoraggiamento. Grazie soprattutto alla musica.

Ai momenti estemporanei, come quando Terri Nunn dei Berlin ringrazia il pubblico per avere dato alla band il suo primo numero uno, parte con una versione a cappella di Take My Breath Away e alla fine si concede una lunga passerella in mezzo al pubblico sulle spalle di un volonteroso aiutante. Forse per il numero uno avrebbe dovuto ringraziare Giorgio Moroder e Top Gun, ma non c’è stato il tempo di farlo. «E grazie per essere venuti anche a chi non aveva idea di chi siamo. Ora la nostra canzone religiosa preferita: Highway to Hell!».

Si cambia completamente registro con gli Psychedelic Furs. Sarebbe bello vederli avvolti nel buio, ma il cartellone parla chiaro: alle 10 e mezza tutti fuori. E allora tocca partire in anticipo e accontentarsi del sole del pomeriggio di cui Richard Butler sembra non accorgersi, dandy debitore di Bowie nella fisicità e solo di sé stesso per le doti vocali ancora intatte. Il suo cappotto scuro non è insomma l’indumento più adatto alla giornata, mentre lo sono eccome pezzoni come Heaven e Pretty in Pink. Tutto ha il difetto di finire troppo presto, e curiosamente senza la canzone che dà il titolo all’intero festival, ma il prossimo 11 novembre ci sarà la possibilità di vederli a Milano in un concerto tutto loro.

Per uno scherzo del caso, il poco confortevole scenario del palco secondario è la cornice ideale per il disturbante set dei Public Image Ltd. John Lydon se ne frega di essere a un festival e anzi boicotta volutamente il potenziale di coinvolgimento del pubblico di alcuni pezzi: la versione PIL di Open Up dei Leftfield, per esempio, è appena accennata. Un po’ meglio va con Rise, ma la conclusiva Chant, da Metal Box, è un canto solo nel nome. «Non mi scuso di niente… tranne per i Sex Pistols che fanno karaoke!» dice salutando. A parte che i suoi ex compagni potrebbe ormai lasciarli stare, di sicuro la sua band il karaoke non sa nemmeno cosa sia.

La grande sorpresa di giornata è forse la forma smagliante degli Happy Mondays. Shaun Ryder, in forma a modo suo ovviamente, fa il capobanda lasciando la prima fila al ballo e alla maracas di Bez. Anche il pubblico ha voglia di ballare, e la macchina funk della band di Manchester si ferma solo quando viene tolta la corrente, letteralmente, dopo un set troppo breve. Anzi, non si ferma neanche allora perché i musicisti vanno avanti a produrre suoni che purtroppo sentono solo loro, finché non li tirano giù dal palco. 
Su quello principale intanto è salito Billy Idol, che passa da una ballatona come Eyes Without a Face alle nostalgie punk fuori tempo massimo del recente duetto con Avril Lavigne, emblematicamente intitolato 77. Poi passa a raccontare di quanto gli piace girare in moto per gli Stati Uniti, fonte di ispirazione per un altro nuovo pezzo (Too Much Fun), che inizia così: “Mi sono tinto i capelli e ho lasciato la scuola, sbarco il lunario infrangendo la legge”. Il suo è party punk, diciamo. È simpatico, ce la mette tutta, prende anche dieci bacchette e le butta lui stesso al pubblico, ripetendosi con delle specie di freesbie a forma di ciambella. Alla fine butta anche la maglietta e rimane a torso nudo. Meglio coprirsi con un bel cappottone di pelle in vista del concerto di martedì sera alla Wembley Arena.

Altro cambio di registro con i The The di Matt Johnson, che con l’iniziale Sweet Bird of Truth ci ricorda (o almeno non ci fa dimenticare) che la zona di guerra di cui parlava quarant’anni fa è ancora in fiamme. I The The soffrono la dimensione festivaliera (la luce, i set brevi, il pubblico che non è interamente il loro) solo sulla carta, perché in realtà funzionano benissimo. Il capobanda sembra un po’ teso, sciogliendosi solo con l’arrivo sul palco di Johnny Marr, per uno dei momenti memorabili della giornata: The Beat(en) Generation e Dogs of Lust sono capolavori cui in quest’occasione la chitarra dell’ex Smiths regala poco in termini di resa ma molto in termini di entusiasmo, facendo decollare un set fin lì ineccepibile ma freddo. Poi è tutta discesa fino a This Is the Day («L’ho scritta a vent’anni con l’Omnichord, sognavo che avrei girato il mondo. Ogni giorno contiene il seme del cambiamento»), Uncertain Smile («Oggi ci siamo abbandonati all’onda dei ricordi. Chi non ha mai avuto una storia di amore non richiesto? In Svezia alzano tutti la mano, in Germania nessuno») e Giant («Qualcuno di voi oggi è sotto ecstasy? Bene»).

Il problema di quando vedi i Kraftwerk per l’ennesima volta, infine, è che non ti sorprendono più. Anche perché i pezzi che fanno dal vivo sono sempre quelli. È vero che hanno cambiato molti dei visual, sembrano averli un po’ voluti modernizzare rispetto all’efficace semplicità di quelli classici, ma il risultato è che li hanno resi meno efficaci. Non paiono in compenso esserci riferimenti all’intelligenza artificiale, un tema kraftwerkiano su cui avrebbero potuto fare un album intero, ma ormai sono in ritardo persino loro. Però quando arriva Radioactivity ed elencano i luoghi in cui sono avvenuti disastri nucleari non si può non pensare alla loro attualità. E poi, investiti in piena faccia dai loro ritmi, si può ballare tutto il tempo, che è sempre un’ottima chiusura per un festival. Loro vanno avanti quasi senza pause, privilegiando il continuum e l’applauso pare tutto sommato un disturbo, un’intromissione del sintomo di un’emozione umana nel lavoro delle macchine. I robot però vengono celebrati nell’omonimo pezzo ma non si vedono sul palco, forse i tempi stretti del cambio palco non lo consentono.

Quando Ralf Hutter rimane da solo sul palco per un laconico «buonanotte» sono le 10 e mezza in punto. Altro che Musique Non Stop, sembra che gli organizzatori abbiano pensato anche alla minore resistenza fisica del pubblico. Anche i bar interni, tutti già chiusi, sembrano indicare che è ora di prendere la via di casa.