«È un sogno suonare dove i Pink Floyd sono entrati nella storia»: i Dream Theater a Pompei | Rolling Stone Italia
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«È un sogno suonare dove i Pink Floyd sono entrati nella storia»: i Dream Theater a Pompei

Echi e ‘Echoes’. I primi sono quelli dell’esibizione senza pubblico del ’71. La seconda è la cover che gli americani hanno suonato ieri all’Anfiteatro per rendere omaggio ai maestri. La recensione del concerto: grande band, LaBrie fa quello che può

«È un sogno suonare dove i Pink Floyd sono entrati nella storia»: i Dream Theater a Pompei

James LaBrie coi Dream Theater a Pompei

Foto: Pietro Previti

Quando si entra nell’Anfiteatro romano del Parco archeologico di Pompei è impossibile non pensare al leggendario live dei Pink Floyd dell’ottobre del 1971, ripreso da Adrian Maben, e ai concerti solisti di David Gilmour e Nick Mason. Da quell’ottobre di 54 anni fa, l’Anfiteatro rivendica il suo ruolo anche di luogo di musica tra i più importanti e suggestivi del mondo, calcato negli anni da artisti come Elton John, Patti Smith, James Taylor, King Crimson. Ieri sera è toccato ai Dream Theater al gran completo, con il ritorno di Mike Portnoy alla batteria, protagonisti del 40th Anniversary Tour, in cartellone alla seconda edizione del festival BOP Beats of Pompeii. Un sottile filo lega i Pink Floyd ai Dream Theater, che non hanno mai nascosto la loro infinita ammirazione per Waters, Gilmour, Wright e Mason, al punto che – esattamente vent’anni fa – hanno eseguito dal vivo l’intero The Dark Side of the Moon.

I luoghi conservano l’impronta di chi con essi ha trascorso del tempo, li ha vissuti. Qui, tra queste pietre millenarie, dove morirono migliaia di persone per bocca di un vulcano fino ad allora ritenuto amico, c’è una laica sacralità fatta degli echi dei pensieri di chi non c’è più – la cui presenza si avverte sempre – e di chi ci ha suonato. Presenze che dimorano in una penombra che custodisce memorie eterne, ai piedi del Vesuvio. John Petrucci, John Myung, Mike Portnoy, Jordan Rudess e James LaBrie questo lo sanno, lo avvertono: si capisce dall’entrata in scena che per loro non è un concerto come tutti gli altri.

«È un sogno per noi suonare dove i Pink Floyd si consegnarono alla storia», dice al pubblico accorso numerosissimo da ogni parte d’Italia James LaBrie. La presenza di Waters & co. aleggia su tutto il concerto fino a manifestarsi concretamente attraverso un accenno di Wish You Were Here (proposta all’interno di Peruvian Skies, con Wherever I May Roam dei Metallica) e soprattutto con una versione di Echoes a cui la band affida l’apertura della seconda parte del concerto. Basta la goccia d’acqua “che cade sulla Terra”, riprodotta dal synth di Rudess, creata all’epoca da Wright in Si con un pianoforte a coda amplificato tramite un altoparlante Leslie, a scatenare gli applausi dei presenti.

La prima parte del live, dopo l’iniziale Night Terror tratta dal nuovo album Parasomnia, si sofferma su un trittico di brani tra i più rappresentativi della band tratti da Metropolis Pt.2: Scenes from a Memory, con accenni alla storia del protagonista del concept, Nicholas, alla scoperta della sua vita passata, tra amore, omicidi, infedeltà. La band mostra i muscoli con un’esecuzione impeccabile, nonostante la complessità delle strutture. Dietro la sua mastodontica batteria a tripla cassa, Mike Portnoy sembra non aver mai lasciato la band. È lui il più carismatico. John Petrucci, John Myung e Jordan Rudess creano – come faranno per tutto il concerto e come fanno da tempo – un interplay perfetto con i loro strumenti che s’intrecciano, dipingendo un unico affresco sonoro. Petrucci mostra in ogni composizione la sua padronanza tecnica: plettrata alternata, legato, vibrato, bending, arpeggi, sweep-picking, il tutto a velocità ipersonica. Un bignami della chitarra prog metal con tecniche utilizzate sempre in maniera creativa e funzionali alla musica. Il suono del basso di Myung è potente, profondo, ma quando serve sa essere anche morbido, a suo agio anche in metriche irregolari e complesse come 7/8 o 13/16. L’indipendenza delle mani di Rudess, così come il suo mirroring, è impressionante soprattutto durante passaggi complessi, dove non perde mai controllo e precisione.

La voce di James LaBrie fa quello che può, ma è cosa ormai nota che non è più quella di una volta, ferita dallo scorrere del tempo e da una grave intossicazione alimentare che nel 1994 gli ha provocato una lacerazione permanente alle corde vocali. Ma la band ha sempre fatto muro attorno a lui, difendendolo, così come anche i fan che gli perdonano per affetto sbavature e stonature. Lui prova a gestirsi con sapienza, entrando e uscendo dal palco durante i lunghi momenti strumentali per riprendere fiato. Panic Attack e Barstool Warrior sono un crescendo di emozioni e adrenalina, con le note della chitarra di Petrucci che si scagliano in alto nel cielo. Peruvian Skies continua a colpire anche per il testo – uno dei loro migliori – che con garbo ma anche con reale crudezza, tratta il tema della pedofilia in famiglia. La potenza di Take the Time, con la doppia cassa veloce e martellante di Mike – uno dei batteristi più influenti degli ultimi decenni – e con i suoi vari cambi di tempo, costringe il pubblico ad alzarsi dalle sedie e a cantare a squarciagola aiutando James, come accadrà di lì a qualche minuto anche con As I Am.

Dopo una pausa durata una ventina di minuti, l’apertura della seconda parte del concerto è l’omaggio ai maestri Pink Floyd e alla loro Echoes. The Enemy Inside e la nuova Midnight Messiah sono bordate sonore che continuano a scatenare il pubblico. Il finale è affidato all’esplosione di potenza di The Count of Tuscany e di The Spirit Carries On e all’amatissima Pull Me Under.

I Dream Theater, dopo 40 anni di musica, in uno dei posti più suggestivi del mondo, ci hanno consegnato un concerto di grande impatto, perfetto nell’interplay tra i musicisti, con la voce di James che, con dignità, prova a tenere il passo. Due ore e mezza di musica di altissimo livello senza cali di rendimento. Tempi dispari, arrangiamenti complessi, assoli infiniti, strutture metriche e sonore impossibili ai più, una potenza di fuoco incredibile continuano ad essere il marchio di fabbrica di questa band che ha alzato l’asticella del prog metal, aprendo un varco a tutta una nuova generazione di musicisti cresciuta ascoltando i loro concept album e studiando la loro tecnica, come loro hanno fatto con i maestri Pink Floyd e Rush.

Qualcuno solleverà la solita critica: belli senz’anima, didascalici, freddi, tutta tecnica e poco cuore. Certo, quando si ascolta Echoes dei Pink Floyd tutto il resto va in secondo piano, lì si gioca in un’altra categoria. Ma è pur vero, come diceva Georges Brassens, che «senza tecnica, il talento non è altro che un abito sporco». I Dream Theater sono questo, prendere o lasciare e chi è immerso nel loro mondo non può non rimanere appagato e soddisfatto da quanto ascoltato, visto, vissuto.

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