È stato un gran bel Sherwood Festival | Rolling Stone Italia
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È stato un gran bel Sherwood Festival

Fra una line up invidiabile (Subsonica, Tre Allegri Ragazzi Morti, I Hate My Village), serate a 1 € e un approccio sostenibile, ci auguriamo che il modello del festival padovano venga copiato al più presto

È stato un gran bel Sherwood Festival

Subsonica. Foto di Stefano Trivellato

Un’altra candelina è stata aggiunta sulla torta dello Sherwood Festival, da poco concluso in quel di Padova. Uno dei più longevi e interessanti fastival italiani, della durata di un mese, ha mosso i primi passi nel remoto 1985. Anni trascorsi come un lampo ma sufficienti a rendere questa manifestazione sempre più forte dal punto di vista dei contenuti e dell’ideologia, rendendola sempre più competitiva sul piano europeo nonostante non sguazzi nei contributi, statali e non, stanziati per molti dei festival nazionali.

Oggi, a oltre trent’anni dal timido esordio, Sherwood rappresenta non soltanto una vetrina nostrana per gruppi e musicisti di belle speranze e artisti internazionali ormai fissi nell’immaginario collettivo, ma una coordinata fissa, una realtà costante, un modello da prendere ad esempio in altri contesti ben più blasonati e sovvenzionati. Una solida esperienza attraverso la quale tentare di fare un punto sui gusti musicali italiani e le tendenze che lo investono, gli umori che lo accompagnano, le energie sotterranee che lo movimentano. Sicuramente encomiabili, e si auspica copiabili, le idee di mettere alcuni live al prezzo simbolico di 1€ (quest’anno Murubutu, TARM, Koffee, una rassegna indie, una jazz e due festival hardcore) e uno spazio food che va dai 3€ in su. Non solo mettendo in luce i buoni propositi degli organizzatori, rendendoli all’istante assai più simpatici, ma permettendo l’emozione di un festival a chiunque, senza distinzione di età e/o ceto sociale. Eccezione che, in uno scenario in cui si fermano i concerti per lagnarsi della cultura troppo cara per i giovani, mi sembra doveroso almeno segnalare come valida alternativa al noto. Questo, vale la pena sottolinearlo, in più e non in sostituzione rispetto tutti i temi solitamente cari all’universo dei festival: ovvero l’ecologia, il riciclo, il risparmio energetico o il concept “plastic-free” assai di moda ultimamente.

Un festival che manca quindi alle cronistorie estive, per dar spazio a entusiasmi di ampio respiro internazionale, come Fiberfib o Pukkelpop se non proprio Sziget o chi lo sa che, eppure meritevole d’elogio. Ma torniamo alla musica. La città veneta mette a disposizione il parcheggio inutilizzato adiacente allo Stadio Euganeo per una rassegna che a più di uno avrà ricordato gli esordi del Primavera Sound, per l’afflato variegato del cartellone, il costante riscontro di pubblico e la convivialità dell’accoglienza. Tanta roba, non c’è che dire. Inizio la mia frequentazione dell’area concerti con gli Assalti Frontali e i Colle Der Fomento: superata la fase entusiasta per l’atteso ritorno, la squadra romana si conferma uno dei più belli e interessanti live-act in questi anni, a prescindere dal genere. Quattro giorni dopo rivedo i Coma_Cose (con line-up ampliata a cinque): sembra che i due abbiano finalmente capito come riempire un’ora e mezza di concerto senza ripetersi all’infinito. Se tanto mi da tanto, Mancarsi meriterebbe di essere uno degli anti-tormentoni di quest’estate. Interessante Cogito che apre il live.

Neanche il tempo di rincasare e il giorno dopo ci sono i Dropkick Murphys nell’unica data italiana: come prevedibile il pienone è assicurato, anche se oramai hanno un palco così autoreferenziale che sembrano gli Iron Maiden. Promossi, ma gli opener Interrupters li battono in stile e attitudine che la metà basta. Intervallato dal primo dei due festival punk hardcore, questo del Collettivo Trivel con Dune Rats e Blowfuse, divertentissimo, sul mainstage si avvicendano un giorno Carl Brave e l’altro Capo Plaza: il primo fa così tanto pubblico che il fotografo sul palco non riesce a inquadrare tutti, il secondo non lo vedo per via di altri impegni presi.

A detta di Cristina Scabbia, la data a Sherwood di quest’anno è stata tra le più belle ed emozionanti del tour estivo dei Lacuna Coil e se lo dice lei non vedo perché contraddirla. Il 28 giugno suonano Motta e il super-gruppo tutto nostrano degli I Hate My Village: reduce dalle disavventure liguri, Motta se ne esce con un live teso e da battaglia. Sorprendente. Gli Hate invece risultano alla lunga insopportabili nel loro vagare tra stili, cliché e idee senza trovare mai una meta propria. Brave sosta e il giorno dopo è la vota del ritorno degli Ska-P, preceduti dai redivivi cazzoni da sempre Zebrahead. Ci presentiamo con l’idea di non essere più universitari casinisti da tempo immemore oramai e ci ritroviamo a mezzanotte zuppi di sudore per aver saltato ininterrottamente. Il nostro contapassi è letteralmente impazzito con noi. Inossidabili. Il concerto di Madman si posiziona verso la fine degli orali della maturità a Padova: c’è così tanta gente che dieci navi di Salmo non basterebbero a contenerla. Si sarà divertito, non ci piove.

A proposito di pioggia: la nuova star del reggae, Koffee, suona un sabato dopo un diluvio che avrebbe scoraggiato pure Noè. Pitchfork l’adora da tempo e il pubblico dello Sherwood si dimostra preparatissimo di fronte alla giovanissima artista. Versatile, spensierata e veramente deliziosa. Il secondo festival hardcore non lo capisco bene. Come headliner ci sono i The Secret che fanno palesemente metal. Houston abbiamo un problema. È quasi finita. Penultimo giorno affidato ai Subsonica. Samuel & Co. ormai hanno uno zoccolo così duro di fan che sembra quasi paranoide e superfluo muovergli delle critiche. Pur restando la band più ancorata a quel concetto (oramai) vetusto di discoteca rock fine anni Novanta che il mondo abbia forse mai conosciuto. Tutti però saltano e battono le mani a comando che neanche in un villaggio Valtour all’ora di acquagym. E quando dico tutti intendo un quasi sold-out impensabile in un’area vasta come quella dello Sherwood Festival.

Come l’inizio con Murubutu, il finale è con il botto, con i Tre Allegri Ragazzi Morti. Il prezzo a 1€ trasforma un semplice live in un’occasione di aggregazione totale difficile da spiegare a parole. Tra le bancarelle, la libreria, l’aria dibattiti e l’area sport è un via-vai di famigliole con figli, nonni coi nipoti, studenti e lavoratori di qualsiasi razza e provenienza come di rado ci è capitato di vedere ai festival standardizzati. I TARM dal palco se ne accorgono e gioiscono di così tanto pubblico preso bene. Ne viene fuori un set di oltre due ore, con tanto di cameo di Pierpaolo Capovilla, e il Tofo che di scendere dal palco non sembra avere voglia. Ci siamo persi qualcosa (Timo Maas headliner della serata elettronica, i Derozer, la serata indie col rimpianto di non aver visto Bartolini e qualcos’altro), ma di sicuro avremo modo di rifarci, l’estate prossima.