“Non è paura di guardarmi dentro / mentre tutto è buio fuori”. È un verso di Ultimo, il megacantautore incompreso dalla critica che in questi giorni festeggia uno di quei curiosi record di concerti allo stadio Olimpico, con il pubblico che canta in coro. Non è difficile cantare le canzoni di Ultimo, ultimo dei cantautori pop romaneschi (alla Venditti, alla Fabrizio Moro). Neppure guardarsi dentro lo è, se il buio e la paura si sublimano nella quadratura dell’intonazione, nella chiarezza della parola – la prevalenza di quest’ultima sulla musica. Non è colpa di Ultimo. È merito delle canzoni, quando ti prendono per mano e ti accompagnano all’uscita.
“Vorrei dire a tutti quanti di stare attenti alla propria salute mentale / di chiamare qualcuno o comunque fanculo chiamare qualcuno”. A un certo punto di un pezzo di Tony Boy (Medico) c’è questo discorso ai ragazzi e alle ragazze che ascoltano. Visto l’altra sera a Rock in Roma di fronte a un pubblico non oceanico come quello di Ultimo ma in compenso interessantissimo – attorno ai vent’anni, molte ragazze, qualche coppia – che sapeva già perfettamente i pezzi del nuovo album Uforia, ma ha aspettato con entusiasmo le vecchie hit.
L’album di Tony Boy è in questi giorni primo nella classifica Fimi: una star consolidata, però ancora sul confine che separa dalla trap dalla canzonetta, la provincia di Padova dalla luccicante Milano (nella mitologia del genere, diciamo). Cosa ancora più interessante: questo suo tenersi sulla soglia della popolarità, cadere, scivolare in avanti, rialzarsi e tornare indietro, è uno dei punti fermi della sua narrazione, dissing compresi.
Tony Boy è piccolo sul grande palco. Vestito di nero – buono sia per il banger che per il genere introspettivo – lo attraversa, lo percorre in lungo e in largo e a volte si perde in qualche lunga pausa tra un pezzo e l’altro. Si ascolta cantare, ascolta cantare i ragazzi («come fa?», la solita routine). Recita la parte del trapper consumato, chiede «i cerchi», ossessione del momento. Però ha un chitarrista accanto, per gli arpeggi in minore cari al mumble/Soundcloud rap, a Post Malone e tutti i suoi bro. Ha una vecchia passione per i Blink-182. Nate dall’incertezza su di sé e il suo posto nel mondo – spleen sulla Lambo – le sue canzoni non aiutano, portano in un multiverso (come i labirinti da videogioco che compaiono nelle retroproiezioni sul palco) e ti lasciano lì. Replicano un soggetto scisso, schizoide. Parlano in prima e in seconda persona, forse uno che si sta guardando allo specchio. Sono drammi in una stanza vuota. “Rendersi conto che non sentirsi capito è un pregio”, continua il discorso di Medico, “e non è colpa degli altri / è un problema loro io lo so quanto valete”.
A proposito: a Padova in questi giorni, la città dove Antonio Boy è cresciuto e ha avuto un «rapporto complicato» (parole sue) con la scuola, un ragazzo si è rifiutato di fare l’orale alla maturità perché tanto sarebbe stato promosso lo stesso, e soprattutto perché non aveva alcuna fiducia sulla capacità della scuola di stabilire quando valeva. Un gesto «contro il nozionismo», leggo in una breve intervista al Mattino di Padova. Parola che non si sentiva da decenni, in effetti. Il ministro Voldemort Valditara è corso subito ai ripari temendo la natura contagiosa della cosa.
Il mumble di Tony Boy assomiglia molto a questa improvvisa accensione di una possibiltà di fuga. Un gesto da Bartleby, preferisco di no. In questo la sua fiducia nella scrittura, e nella parola come cura ai traumi, è addittura commovente. E soprattutto inutile. Preferisco di no. Tony Boy è quello che non si capisce mai cosa dice, e questo non consola. O ti perdi con lui, o stai a guardare senza capirci un tubo. Il ronzio dell’Auto-Tune, la voce a bella posta arrochita, dalle notti e dai giorni. Sotto il basso surround delle basi il coro del pubblico, i testi passano come un lampo istantaneo, una sinapsi-lampo della quale resta soltanto il ricordo (il timore di un’allucinazione). Tutto replicato in scena dai sette cannoni sparafuoco a getto continuo che consumeranno parecchi pieni di gas stasera, con l’evidenza di un cartone animato, o di un antico concerto heavy metal.
Uno scenografo ha chiuso le vie di uscita alla destra e alla sinistra di Tony Boy con due pezzi di rete metallica, tipo confine per l’altro mondo. Bella immagine. Della generazione del post-Covid i pezzi di Tony Boy elaborano il trauma che – come sostiene Wu Ming in questi giorni sul suo blog (“Rimozione forzata”) – è stato il momento in cui il nuovo capitalismo delle guerre, dei muri, dell’emergenza permanente è cominciato. «Se è possibile questo, tutto è possibile», scrivono citando Christa Wolf. E ci siamo dentro ancora.









