«La morte, l’importante è che non la vedi arrivare» sono le prime parole che sento pronunciare da un ragazzo all’ingresso del parco di Villa Negri, di Romano D’Ezzelino (VI), ai piedi del Monte Grappa, dove ieri mi sono recato per assistere alla seconda giornata di “preview” dell’AMA Festival. Dopo la data di apertura, che ha visto esibirsi Lemon Twigs, Jet e Black Keys, arriva un’altra giornata dedicata al rock: prima quello da stadio degli Amazons, poi quello più grezzo dei Kills e infine quello del deserto sporco, brutto e cattivo dei Queens of the Stone Age. “Le regine dell’età della pietra”, come erano stati appellati all’epoca dei Kyuss, a mo’ di battuta, dall’amico e allora produttore Chris Goss.
Nonostante l’atmosfera estremamente gioiosa del festival, con giochi e trampolieri, in qualche modo quella frase sulla morte mi rimane appiccicata addosso, come un messaggio subliminale che rispunta fuori durante tutte le esibizioni: dall’apertura degli Amazons, che tra le frecce più appuntite al loro arco fanno spuntare anche un brano ispirato alla strage di Columbine (Joe Bought a Gun), all’esibizione dei Kills, lo stilosissimo duo composto da Alison Mosshart e Jamie Hinch che nel suo set suona anche un’ipnotica quanto esplicita Doing It to Death, ovvero “fallo fine alla morte”.
Ma il pensiero della morte, come vedremo, irrompe in maniera più prorompente sul palco e nell’immaginario del pubblico proprio con l’arrivo dei Queens of the Stone Age. Se in passato la combriccola guidata da Josh Homme era una sorta di famiglia allargata, un porto di mare da cui sono passate figure emblematiche della storia del rock come Mark Lanegan, Dave Grohl e Nick Oliveri (giusto per citare i tre più famosi), oggi sembra essersi stabilizzata nell’assetto attuale. Una formazione che vede l’eclettismo di Jon Theodore (ex Royal Trux e Mars Volta) alla batteria, la perfezione robotica di Michael Shuman al basso e le magie del polistrumentista Dean Fertita a far da collante per tenere insieme il tutto. Menzione a parte va poi allo stile unico e intraprendente del chitarrista Troy Van Leeuwen (ex A Perfect Circle). È stato lui ad ampliare la gamma tonale del nuovo sound dei QOTSA, traghettandolo anche verso altri lidi: dalle chitarre pesanti, con humbucker potenti, al suono più pulito e definito dei pick-up single-coil, montati sulla sua Fender Jazzmaster. Vederlo suonare dal vivo è davvero uno spettacolo nello spettacolo che unisce furia, precisione ed eleganza.


Foto: Giuseppe Craca
La band così composta entra in scena alle 22 in punto. A introdurre l’ingresso del gruppo sul palco c’è la musica di Conan Il Barbaro composta da Basil Poledouris e nello specifico quella che accompagna la scena in cui Conan torna dalla morte, attraversa l’inferno e distrugge il paradiso. Potrebbe sembrare un accostamento azzardato, ma in realtà tra la band di Josh Homme e il personaggio di fantasia creato da Robert E. Howard negli anni ’30 ci sono vari punti di contatto: entrambi mettono in primo piano la forza bruta, ma sotto quell’ammasso di muscoli e riff nascondono un disegno più complesso, oscuro ed esistenzialista.
Per chi lo ricorda, il film di John Milius si apriva con il famoso epigramma di Nietzsche «ciò che non ci uccide ci rende più forti». Citazione che potrebbe essere presa e rigirata dal pubblico verso Josh Homme e il suo perfetto stato di forma, decisamente invidiabile visti i suoi trascorsi più o meno recenti.
Non è un segreto che negli ultimi anni il leader dei QOTSA abbia avuto più volte a che fare con la morte: nel 2013 ha rischiato di lasciarci le penne per delle complicazioni emerse in sala operatoria durante un intervento chirurgico; all’inizio del 2022 ha visto morire l’amico fraterno Mark Lanegan; e sempre quell’anno gli è stato diagnosticato un cancro, poi fortunatamente rimosso. Infine, l’estate scorsa, è stato ricoverato d’urgenza mentre era in tour in Italia, vedendosi costretto ad annullare proprio la data del concerto di Romano D’Ezzelino, finalmente recuperata a un anno di distanza. Il giorno dopo aveva anche tentato di rimettersi in pista, tenendo stoicamente un ultimo concerto a Milano (di cui lui non ricorda nulla, ma noi sì), prima di decidere di annullare il resto della tournée.
Tra la data milanese e il riposo forzato ha avuto giusto il tempo di fare una scappata in Francia per registrare – in condizioni del tutto precarie – un live acustico nelle catacombe di Parigi, davanti a un pubblico di sei milioni di teschi. Un “pubblico prigioniero”, come ha scherzato lui ai microfoni di Zane Lowe. Ecco, questo è Josh Homme. E la musica della sua band lo rispecchia perfettamente: una miscela esplosiva di oscurità e brutalità, controbilanciate da uno slancio vitale irrefrenabile e da un’ironia pungente.


Foto: Giuseppe Craca
Nel corso della serata questa sorta di tao che interseca mortalità e vitalità diventa la chiave di volta per stabilire una connessione più intima tra pubblico e performer. Perché, come dice lo stesso Homme, a un certo punto, ammirando l’imponente montagna alle nostre spalle, «stanotte siamo solo noi e voi… e il resto del mondo affanculo».
Le canzoni sono pesanti in tutti i sensi, molte trattano il tema della morte, ma l’interazione della band col pubblico è sempre spigliata, leggera e piena di vita. Diversi i momenti di scambio, come quando Homme ci mostra come applaudire per fare il finale a cappella di Emotion Sickness oppure quando si preoccupa di farci divertire in sicurezza e poi invita i ragazzi a prendere sulle spalle le ragazze per far vedere loro meglio lo show. Spiega che «la saggezza deriva dall’esperienza» e «l’esperienza deriva dalle decisioni sbagliate». Quindi lui deve avere molta saggezza perché nella vita ha preso un sacco di pessime decisioni.
In un’ora e mezza di concerto, in pratica, i QOTSA attraversano tutta la loro carriera in maniera randomica e quasi sempre inaspettata. «Non suoniamo mai la stessa scaletta» ha ribadito più volte la band. Ed è vero. Anzi, a noi giornalisti ne fanno avere una, ma poi sul palco suonano comunque quel cazzo che vogliono loro. Perché i QOTSA sono così. Il concerto è innanzitutto una festa e ogni festa per essere tale deve mantenere un certo grado di imprevedibilità. In un mondo in cui la maggior parte degli show sono soltanto una copia di una copia di una copia, lo spettacolo dei QOTSA è ancora un evento a cui vale la pena andare due sere di fila. La loro set list è come la scatola di cioccolatini di Forrest Gump, non sai mai quello che ti capita. A parte la forte probabilità che dentro ad alcuni di questi ci si possa trovare dell’alcol o delle sostanze stupefacenti. Non a caso, dal vecchio album del 2000, Rated R, viene rispolverata Better Living Through Chemistry con il suo lungo assolo drogato e psichedelico.
Ma a farla da padrone per tutto il concerto non sono tanto i pezzi più vecchi, quanto le canzoni dell’ultimo album In Times New Roman di cui vengono eseguiti tutti i singoli e quelle estratte dall’acclamato Like Clockwork del 2013, un disco che, non ci crederete mai, ma parla principalmente di morte: tra la muscolarità esplosiva di My God Is the Sun e il funk-metal ubriaco di Smooth Sailing il brano più riuscito alla fine risulta essere I Sat by the Ocean: una semplice chitarra ritmica alla Coffee & TV dei Blur potenziata da un riff che ti si impianta in testa come un microchip. La differenza più grossa la fa il testo con giochi di parole difficilmente traducibili come “il tempo ferisce tutte le guarigioni mentre svaniamo dalla vista” oppure “il silenzio si avvicina, siamo navi che si incrociano nella notte”, probabilmente ispirato a una poesia di Henry Wadsworth Longfellow: “Navi che passano nella notte e si salutano al passaggio, solo un segnale, una voce lontana nell’oscurità; così nell’oceano della vita ci incrociamo e ci salutiamo, solo uno sguardo e una voce, poi di nuovo l’oscurità e il silenzio”. Sarebbero versi perfetti per congedarsi a fine concerto, peccato che qui siamo appena a metà.


Foto: Giuseppe Craca
Tra i brani del nuovo disco, a rubare la scena è Carnavoyeur, una canzone così diversa da tutto il resto che sembra quasi un pezzo apocrifo dei Doors cantato dal fantasma di David Bowie o viceversa. In entrambi i casi si tratta del pezzo più emblematico del concerto perché è quello che meglio racchiude i due concetti di mortalità e vitalità della band. Da un lato pontifica sulla morte e vi ammicca amaramente: “Tutti gli esseri viventi muoiono, dal re della giungla alla farfalla”, ma “quando non c’è più niente da fare, sorrido”. Dall’altro, alla fine termina con un ritorno quasi carveriano alla vita: “avanti sempre, sempre la vita”.
Per il resto, le canzoni si susseguono senza soluzione di continuità dal knockout iniziale di Regular John e No One Knows fino alla fine del set. Nessun encore, tutto dritto di fila come un treno merci in faccia. Little Sister, Go With the Flow e Song for the Dead, un finale che è un crescendo di rock’n’roll che non vede arrivare la propria morte, proprio come aveva detto quel ragazzo all’ingresso. O che comunque, anche se la vede, se ne frega bellamente e continua a suonare. Tanto i re sono morti ormai. Lunga vita alle regine.

















