Vasco Rossi, la recensione del primo dei sette concerti a San Siro | Rolling Stone Italia
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Dio è morto, Vasco no: il racconto del primo dei sette concerti a San Siro

Giù nel pit con la combriccola dei fan che accendono fuochi, scoprono tette, si cantano in faccia, ridono e piangono. E dopo due ore e mezza di musica escono un po’ meno soli. Salvini, Meloni, c’è posta per voi

Dio è morto, Vasco no: il racconto del primo dei sette concerti a San Siro

Vasco Rossi

Foto: Gianluca Simoni

Sventolano un vessillo con su scritto “Tu prega il tuo Dio che io prego Vasco”. Qualcuno ha preparato un’immagine del cantante in rosso cardinalizio e la tira su ogni volta che Vasco Rossi gli passa davanti. Un tizio si fa il segno della croce sul cuore quando arriva Canzone e con essa la dedica «a tutti quelli che sono andati prima del tempo e sono sempre con noi», un altro alza il cartello “Al diavolo non si vende”. A coppie urlano le canzoni verso il palco o al cielo oppure se le cantano in faccia, come se dovessero dirsi l’un l’altro una verità che va per forza gridata.

In mezzo ci sono io, che sono qui nel pit perché voglio sentire la musica nello stomaco e vedere lo “strano animale” da vicino. Voglio sentire la puzza dei fumogeni che bruciano la copertura dell’erba del campo da gioco e il calore delle fiammate che dal palco salgono verso il cielo. Voglio vedere il concerto con questi che urlano che “tradire sé è una libidine” e che alla fine son tre volte buoni, come diceva Guccini, vincono solo in sogni straordinari e si scusano se ti strattonano o ti pestano i piedi. Dopo due ore e mezza di compartecipazione del culto d’un uomo che canta la propria finitezza e le nostre vite in balia del caos e dei sensi di colpa, giungo alla definizione di un’incontrovertibile verità teologica alternativa: Dio è morto, Vasco no.

Visto da qua, il palco è gigantesco, largo quasi 90 metri e alto 28, con un boccascena profondo 25, 1150 corpi illuminanti, schermi disposti in una specie di forma a W e una potenza di mezzo milione di watt distribuita da una quindicina di ampli sospesi, roba che servono 50 e passa articolati per portarla in giro. Sotto è una scena tutta da vedere. Giovani e meno giovani cantano in coro il nome di Vasco. Una settantenne scappa da sotto il palco facendosi strada a fatica tra ventenni che saltano come sciamannati. Dei tizi alzano una bandiera, “Gruppo Fastidio”, di nome e di fatto. Durante Bollicine, momento di festoso nonsense, un padre attraversa il pit portando sulle spalle un bambino di 6, 7 anni che si scusa con tutti per l’inconveniente.

«Sarà una social set list, nel senso di sociale, una scaletta strong che parla del momento drammatico che viviamo», ha detto Vasco Rossi nei giorni scorsi. Diceva pressappoco la stessa cosa nel 2013 quando parlava di «un concerto rock più duro per i tempi duri che corrono» e di una scaletta dove «ci sarà più spazio a brani che trattano temi sociali». Forse i tempi sono sempre duri o forse i concerti di Vasco sono sempre simili. A costo di contraddirlo, direi che questa più che social è la set list perfetta per una tribù di diversamente normali che lotta contro un mondo in cui “ci si fotte allegramente come se fosse niente”, alle prese con le conseguenze della convinzione che devi guardare in faccia la realtà senza raccontarti balle.

L’un-due-tre iniziale è effettivamente bello tosto: l’autoritratto sarcastico di Blasco Rossi, una Asilo “republic” che nel pit provoca il pogo (come del resto Domenica lunatica, da delirio) e Gli spari sopra. La politica c’è fino a un certo punto, poche volte è esplicita, più spesso implicita. Durante Asilo “republic”, Vasco aggiunge un “Giorgiaaaaaa!” quando canta “ci vuole un agente”, un riferimento a Meloni e alla fissazione per l’ordine e la disciplina. Gli spari sopra è dedicata ai «farabutti che governano questo mondo». E Basta poco diventa: “Basta poco per essere intolleranti… ditelo a Salvini! Basta poco, basta esser solo un po’ ignoranti… ditelo ancora a Salvini!”. A un certo punto accenna Neve nera scritta con Maurizio Solieri per la Steve Rogers Band: “Sarà una neve nera se domani nevica, se domani piove sarà una pioggia dura”. Pioggia dura, hard rain, Vasco, Bob Dylan, gli anni ’60 e i ’20 di questo secolo, per me in qualche strano modo torna tutto.

Foto: Roberto Villani

«Siamo sempre qui lucidi, vivi e sani», è una delle poche cose che Vasco dice durante il concerto. Imbonitore presso sé stesso, esagerato al limiti dell’autorionia, chiama il concerto «lo spettacolo più potente dell’universo» e fa battere a Donald Renda un beat per ogni data a San Siro – nel caso non ve l’abbiano ripetuto a sufficienza, sono sette, un record. Accenna (giuro) C’è da spostare una macchina di Francesco Salvi quando si tratta di evocare gli anni ’80. Dietro di lui, i chitarristi Vince Pastano, che è anche il direttore musicale, Stef Burns e Antonello D’Urso (quest’ultimo alla chitarra acustica e programmazioni), il bassista Andrea Torresani (per Siamo solo noi arriva Claudio Golinelli), il tastierista Alberto Rocchetti, il batterista Donald Renda (Matt Laug è in tour con gli AC/DC), una sezione fiati (Andrea Ferrario al sax, Tiziano Bianchi alla tromba, Roberto Solimando al trombone) e la corista Roberta Montanari. Suonano quel rock lì, vecchio e però giusto e potente, che ti prende la bocca dello stomaco, musica da grande rito popolare con riffoni e assoli. Ogni tre, quattro canzoni, Vasco va nel backstage, forse per rifiatare. Torna ogni volta con una giacca diversa.

Il momento più struggente del concerto è Sally. Anzi, i due ritratti femminili di Jenny è pazza e Sally. Mi pare quasi di vedere Vasco commosso o forse è solo sudore. Sotto, qualcuno piange, altri sorridono estasiati. Due amici s’abbracciano durante l’assolo di Gli angeli. Una tipa è andata a prendere a bere e ha fatto la fila: «Mi son persa La fine del millennio e Gli angeli, ma abbiamo la birra, cazzo!». Intanto sul palco Vasco posa da rockstar, ma si capisce che c’è dell’ironia. «Siete pronti?», chiede a un certo punto. Io non lo sono, tutti gli altri sì perché sanno che cosa sta per accadere. Parte Rewind e nel giro di pochi secondi decine di ragazze salgono sulle spalle dei loro ragazzi, qualcuna toglie il reggiseno e lo sventola sopra la testa, altre tolgono la maglietta, altre ancora avevano già provveduto a denudarsi il giusto. C’è anche uno che sale sulle spalle del suo ragazzo, bravi, ci vuole un bel movimento “Gay per Vasco”. Mentre il papa laico canta “fammi un p… piacere” da terza media, penso che sentita qui, col palco seminascosto dalle chiappe d’una moretta che stracanta e s’agita e si diverte, Rewind non mi sembra più una canzonetta tossica come m’è sempre parsa, ma un inno di gioia e liberazione. «Siete bellissime!», dice Vasco alle denudate e accidenti, sarà la colonna sonora, sarà la bella serata, ma ha ragione lui.

Qui dove il suono arriva violento e la gente salta e canta e urla «Vascoooooo!» per ore, s’avverte nitidamente la strana miscela d’una musica fatta in parti eguali d’ironia (grazie al cielo), magone per via di certi testi esistenzialisti e tamarraggine rock. È un rock beninteso lontano dalla cultura alternativa e preso invece dall’hard anni ’70 e ’80. Rossi l’ha usato per musicare vicende di provincia e poi mettere in rima domande sull’esistenza. In un Paese e in un tempo in cui le popstar posano da outsider vessate dal mondo in canzoni piene di certezze e messaggi su quanto sia giusto essere sé stessi, lui che figo non è, ha 72 anni e vivaddio non lo nasconde, lui che è stato un vero underdog distribuisce dubbi e slogan sull’inferno della mente. Non canta le virtù che hai, canta gli sbagli che fai. E infatti loro non sono credibili, lui sì. Loro non hanno una Vita spericolata, una Siamo solo noi, lui sì. Pensateci la prossima volta che vi viene da chiedere stupiti com’è che tutta questa gente va a vedere Vasco.

«Sei andato alla messa cantata?», m’ha chiesto una volta un collega dopo uno dei tanti concerti di Vasco Rossi a San Siro, che ieri sera hanno raggiunto quota 30. Non lo intendeva come un complimento, ma in fondo lo era. È un rito laico e sano e certamente più divertente d’una messa la routine concertistica che da molti anni s’è scelto Vasco. Non fa tour nei palasport, ma compare una volta all’anno, mette in piedi concertoni che manco hanno bisogno di canzoni nuove (quelle dell’ultimo album Siamo qui, ad esempio, stasera sono del tutto assenti) e cerca di battere ogni volta un piccolo record per via della sua spudorata megalomania. Vasco ha bisogno del pubblico senza il quale, sono convinto, vivrebbe peggio, forse vivrebbe male. E dà al pubblico un messaggio chiaro e semplice, ed è la cosa a cui penso mentre Vasco canta di vivere “senza rimpianto” e il pubblico lo ripete mille volte ancora.

Mi viene in mente quel che mi disse Jon Landau, il manager di Bruce Springsteen, proprio nel 2013, un altro periodo in cui ci si raccontava che l’Italia non se la passava bene (sai che novità). Secondo il manager, Springsteen sapeva come stavamo e anzi il messaggio del suo concerto era in buona sostanza «tenete duro». Mi pare che Vasco faccia qualcosa di simile, con altri mezzi e con un altro linguaggio ovviamente. In quest’epoca senza Dio né santi né eroi, torna una volta all’anno con la sua forza e i suoi limiti, riempie gli stadi e dice a tutti quanti: siamo vivi, tenete duro.

Nessuno se ne va dal pit durante l’inevitabile finale di Albachiara, si aspettano i fuochi d’artificio che illuminano il cielo sopra San Siro e che Vasco pronunci il suo andate in pace, che nel suo caso è il classicissimo «ce la farete tutti». Abbiamo creduto alla modernizzazione del Paese, alla rinascita di un grande Partito Radicale dopo la morte di Pannella, alla capacità dei nostri politici di distinguere l’eroina dalla marijuana, al fatto che Salvini capisse le canzoni di De Andrè (no, non è vero, non ci abbiamo mai neanche sperato). Abbiamo creduto a tante cose, figurati se non possiamo credere a Vasco quando ci dice che riusciremo a “vivere continuamente” e senza rimpianti.

Foto: Gianluca Simoni

Set list:

Blasco Rossi
Asilo “republic”
Gli spari sopra
Gli sbagli che fai
Quanti anni hai
Come stai
Vivere senza te
Bollicine
Jenny è pazza
Sally
Domenica lunatica
Interludio 2024 / Echo Lake
Un gran bel film
La fine del millennio
Gli angeli
Basta poco
C’è chi dice no
La strega (la diva del sabato sera) / Cosa vuoi da me / Vuoi star ferma! / Tu vuoi da me qualcosa / Occhi blu / Incredibile romantica / Ridere di te
Rewind
Il mondo che vorrei
Dillo alla luna
Se ti potessi dire
Siamo solo noi
Vita spericolata / Canzone
Albachiara

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