Cronaca di un concerto “clandestino” di Lous and the Yakuza | Rolling Stone Italia
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Cronaca di un concerto “clandestino” di Lous and the Yakuza

Dopo due anni d'attesa, la cantautrice congolese è tornata a esibirsi dal vivo a Parigi, di fronte a 500 persone: un tributo ai sostenitori della prima ora, a chi c’è sempre stato e anche un po' a noi italiani

Cronaca di un concerto “clandestino” di Lous and the Yakuza

Lous and the Yakuza

Foto press

Nella velocissima scalata di Lous and the Yakuza al mercato discografico europeo, il biennio pandemico ha rappresentato una deviazione di percorso potenzialmente scivolosa. Dopo il successo travolgente dell’album di debutto Gore, patrocinato da El Guincho (già padrino artistico di Rosalía), la cantautrice congolese sembrava essere destinata a spingere il piede sull’acceleratore, ricacciando la nomea di one hit wonder e sancendo definitivamente il completamento del suo arco di trasformazione da enfant prodige.

E invece, pagando uno scotto comune a tanti artisti approdati al mainstream nell’annus horribilis 2020, anche la next big thing dell’urban europeo ha dovuto affrontare da vicino lo spauracchio della stasi, annullando quello che, nei progetti di Sony, avrebbe dovuto rappresentare il tour della consacrazione.

In questi due anni, però, Marie-Pierra Kakoma – questo il vero nome della cantautrice (oggi cittadina belga) – non ha ceduto allo stallo: ha irrobustito le sue collaborazioni internazionali e allargato il proprio dividendo di fama posizionandosi su altri mercati, in particolare quello italiano, prima con la realizzazione della hit Je ne sais pas con Sfera Ebbasta e, in seconda istanza, prendendo parte alla settantunesima edizione del Festival di Sanremo, in cui si è esibita in un duetto con Gaia sulle note di Mi sono innamorato di te di Luigi Tenco.

In questa parabola schizofrenica, il 25 maggio ha rappresentato un giro di boa, segnando il ritorno di Lous alla dimensione prediletta: quella dei live. Una rentrée desiderata a lungo che, come da previsioni, non ha acquisito la forma del mega-assembramento da palazzetto, ma del simposio “clandestino” riservato a pochi adepti, quasi un rito laico celebrato per riattivare una connessione col pubblico smarrita da troppo tempo.

Lo si evince dal luogo che l’artista ha scelto per inaugurare la sua personalissima fase 2, quella che, utilizzando un’espressione piuttosto inflazionata, avrebbe dovuto assumersi il fardello della rinascita, portando in sé tutti i crismi del ritorno alla normalità: La Maroquinerie, storica sala da concerti parigina con una capienza limitatissima, pari a circa 500 persone. In una dimensione così intima, quasi domestica, la “resurrezione” di Lous and the Yakuza non poteva che essere un piccolo successo.

Tra il pubblico non c’erano colleghi famosi o mattatori della scena underground parigina, almeno che abbia visto io, ma era presente il pubblico che ha sostenuto Lous dal primo istante, dal debutto folgorante con Dilemme del 2019, il singolo che l’ha proiettata alla ribalta nazional-popolare tanto in Francia quanto in Italia, grazie all’adattamento di tha Supreme.

Il concerto della rinascita è stato prima di tutto questo, un tributo che Lous ha voluto dedicare ai suoi sostenitori della prima ora, a chi c’è sempre stato, a quelli che nella sua concezione delle cose non sono dei soltanto dei semplici datori di lavoro, ma degli amici di antica data da coccolare il più possibile: li chiama per nome, li abbraccia, quando possibile duetta con loro, da vera prima tra pari, prodigandosi in una costante call to action che ha trasformato La Maroquinerie nella sede di una messa cantata organizzata per celebrare il ritorno alla vita.

Quando parte Tout est gore, il brano d’apertura, la sensazione è di essere tornati al 2019: in sala non c’è una sola mascherina, il distanziamento sociale è ormai un lontanissimo ricordo, la gente balla, urla e si riversa a ridosso del palco, ricreando un’atmosfera pre-pandemica che, sì, forse è arrivato davvero il momento di cambiare pagina – tornando a quella precedente, ça va sans dire.

Il teatro canzone con caratteristiche francesi della diacona-Lous è stato scandito da alcuni coup de théâtre ad altissimo tasso di empatia: ad esempio, prima di eseguire Je ne sais pas, si è premurata di accertarsi che in sala fossero presenti anche degli italiani (e sì, ce n’erano: la quota nazionale era piccola, ma rumorosa) e tutti, a prescindere dall’idioma di appartenenza, hanno recitato come un mantra “Non ci credono, Euro nei sogni miei, chiedi come si fa, giuro, je ne sais pas”, dando il via a una “Rome-Paris connection” da pelle d’oca.

La celebrazione laica de La Maroquinerie è terminata con una versione iper-estesa di Dilemme, il punto di inizio di ogni cosa: durante l’esecuzione, Lous non è riuscita a trattenere le lacrime, ringraziando i 500 fedeli per aver saputo aspettare e per non averla abbandonata.

L’evento nell’evento, però, è stato il post concerto: fuori dal locale Lous ha dispensato abbracci e parole di speranza per chiunque, evidenziando la sua innata tendenza a mischiarsi con il pubblico; è un suo tratto distintivo, lo si è visto sia durante il live che dopo: disconosce ogni barriera di separazione, è un’artista popolare nel senso più nobile e umano del termine. L’anno scorso, in un’intervista concessa a Rolling Stone, ci aveva detto: «Vorrei descrivermi così: io sono una bella persona che fa musica, un essere umano, una donna black. Sarebbe un ottimo inizio per la mia biografia, no? She’s a nice person». Che dire: yes Lous, you are.

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