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Colapesce e Dimartino all’Alcatraz, andarsene sputando un addio

Meno teatro, più club. Ieri sera a Milano i due hanno dimostrato anzitutto d’essere musicisti e grandi autori. E che band e che peccato pensare che fra un po’ (forse) non li vedremo più assieme

Foto: Simone Cargnoni

Canta a squarciagola la ragazza con la birra in mano, canta l’hipster con la barba curatissima, canticchia il sessantenne che le sa tutte a memoria, canta quello col cappellino che sembra il protagonista del video di Paranoid Android, canta il tecnico alle luci. Cantano tutti a un concerto di Colapesce e Dimartino e questo perché, come si usa dire, hanno i pezzi. Potenza della canzone popolare. Saranno pure poco attuali, come dicono ironicamente in un pezzo dei loro, ma nel giro di tre anni o poco più hanno ridato fiducia a chi pensa che esista un modo pop, largo e non banale di fare canzone d’autore nel 2023.

Il concerto che stanno portando in giro e che ieri sera è passato dall’Alcatraz di Milano sold out m’è parso anzitutto una dichiarazione precisa: Colapesce e Dimartino avranno pure due magnifiche facce da schiaffi e saranno dotati di tanta (auto)ironia, ma sono anzitutto musicisti e lo dimostrano sul palco. È una delle differenze fra questo spettacolo e altri del duo dove lo sberleffo, la battuta, il siparietto, lo sfottò reciproco erano parte integrante dello show. È un concerto da club, questo, non da teatro. Ci si diverte, eccome, ma con la musica.

Per i primi 50 minuti suonano in modo carico, diretto, rock, e peccato per l’acustica specie all’inizio un po’ incasinata. È come se Colapesce e Dimartino volessero mettersi alle spalle i duetti con gli imitatori, le scenette su Internet, le apparizioni in tv e tutto quello che un cantante deve fare oggi per far sapere al mondo che esiste. Metterselo alle spalle e dimostrare quel che valgono, seriamente. E ci riescono, come quando partono per i pezzi strumentali. In certi passaggi pare d’essere a un concertone new wave con venature funk. Sul palco sono in sette, ad affiancare Lorenzo e Antonio ci sono Adele Altro a vari strumenti tra cui il sax, Nicolò Carnesi alla chitarra, Donato Di Trapani alle testiere, Alessandro Trabace al violino, Giordano Colombo alla batteria. La scenografia è minimale, sei pannelli di luci alle spalle dei musicisti e niente altro.

La prima parte è cantata, a volte urlata dalla gente in modo quasi liberatorio, sempre divertito. E quando la si sente intonata da tutto l’Alcatraz, Ragazzo di destra viene riscattata da ogni polemichetta. È chiaro che è una canzone su un singolo ragazzo di destra, direi un membro delle forze dell’ordine particolarmente zelante e impaurito dal mondo. La forza della canzone sta nell’abbinamento tra la cantabilità e l’ambiguità dei sentimenti che ispira. Ci si può persino commuovere, l’ho visto coi miei occhi, cantando un verso che riassume i luoghi comuni della destra, “mi darai un figlio naturale la notte di Natale, mentre cade giù la neve”, una frase ridicola e allo stesso tempo bellissima da intonare.

L’unico siparietto ironico è piazzato all’inizio della seconda parte, che è più cantautorale e meno tirata della prima, forse anche più sciolta. Tolte le giacche, i due salgono sul palco, si sistemano su due sedie dando le spalle al pubblico e attaccano Il prossimo semestre, il pezzo sul mestiere di cantautore in questo tempo disgraziato. Nella parte parlata, quella sulla ricerca del consenso di massa, incitano Carnesi a fare un assolo tipo Måneskin (non lo fa), accennano Shakerando (grandi risate), provano Italodisco. Non ce n’è bisogno, hanno hit d’altro tipo, e quando arriva Splash si capisce che è già un classicone, né più né meno di Musica leggerissima. Per I marinai sale sul palco Graziani (non Ivan, spiritosoni, ma il figlio Filippo) ed è uno dei momenti migliori del concerto (nella prima parte si è unita al duo Joan Thiele per Forse domani, in platea tanti colleghi, da Vasco Brondi a Veronica Lucchesi della Rappresentante di Lista). «Che carini, sono troppo teneri», continua a ripetere una ragazza al mio fianco. «E bravi terroni», esclama un’altra scoppiando a ridere eccitata dalla musica e dalla birra.

Alla fine del concerto, dice Colapesce, «dovremmo fare la finta» e cioè andare nel backstage, farsi acclamare, tornare. E invece «restiamo qua». Escono di scena per l’ultimo pezzo e quando tornano sul palco solo loro due, con le chitarre acustiche. «Che canzone vogliamo fare?», chiede Lorenzo. Urla, richieste, casino. «Non si capisce una minchia, quindi decidiamo noi». Attaccano come da copione Majorana, versione da Colasimon e Dimarfunkel. È una canzone che parla di sparizione e dopo i concerti che farà nel 2024 è possibile che scompaia anche il duo, almeno per un po’.

Ne manca di tempo, non è una decisione irreversibile, ma quello della fine è un pensiero che fatico a togliermi dalla testa e che ispira una sorta di bilancio. “Andiamo via sputando un addio”, cantano in Majorana. L’addio o l’arrivederci che hanno sputato ieri sera all’Alcatraz è meno amaro di quello della canzone e ci dice che più di questo Colapesce e Dimartino non potevano fare. Hanno scritto almeno due classici che ricorderemo fra trent’anni, hanno pubblicato due album pieni di canzoni notevoli, hanno fatto un film ben accolto con relativa colonna sonora, hanno avuto un successo per loro impensabile nel 2020, hanno indovinato una versione pop della canzone italiana dicendo cose senza annoiare, hanno dimostrato che in Italia c’è gusto ad essere intelligenti. Esagero: hanno guadagnato in coppia un pezzetto di immortalità che forse da soli non avrebbero avuto. E l’immortalità, come cantano loro, è figa, lo sapevano anche i greci.

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