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Cinque cose da dire sul concerto italiano delle Pussy Riot

Il collettivo ha portato in scena la propria storia aprendo una finestra sulla situazione russa. Un'importante lezione di storia e resistenza disertata però dagli under-35

Foto: Kimberley Ross

Il pubblico

Sembrerà strano, ma è giusto cominciare da qui. Il Teatro degli Arcimboldi di Milano, sede della prima e finora unica esibizione italiana del collettivo russo, può ospitare 2.346 persone. Sono tante, e infatti domenica sera il teatro era tutt’altro che pieno. Il costo dei biglietti non era eccessivo – si partiva da 23€. Una giustificazione potrebbe essere l’eccesso di offerta in un periodo in cui sono ancora in atto i recuperi dei tour saltati durante il lockdown. Un’altra potrebbe essere che c’era la finale del Mondiale di Volley, oppure Juventus-Salernitana, vai a sapere. Ma soprattutto, ci sono due fattori: martellati da anni di “prima gli italiani”, in un periodo in cui ogni prodotto deve rassicurare i consumatori di essere 100% tricolore, anche gli ascoltatori di musica e di concerto sono più autarchici che anarchici. Poi, va da sé, le Pussy Riot non sono una band che snocciola hit – tutt’altro. Però colpiva la particolare latitanza di spettatori sotto i 35 anni. Come se una certa curiosità (artistica, politica, o anche solo per la contemporaneità) fosse finita con la generazione boomerista perennemente irrisa per il suo tentativo di rimanere in sintonia con ciò che succede.

Si potrebbe eccepire che il contesto, quello teatrale, non era quello di un club dalla fama “alternativa” o un centro sociale (pare ne esistano ancora, da qualche parte) che forse sarebbe stato considerato il più coerente. Ne seguirebbero valutazioni ancora più interessanti su come un luogo faccia l’evento – ma l’esibizione delle Pussy Riot in un teatro non è fuori luogo, visto l’impatto dei contenuti audiovisivi in una performance che per contro all’aperto soffrirebbe problemi di dispersione della concentrazione. Qualcuno dei colleghi faceva altresì notare che qualche preoccupazione legata alla sicurezza non è da scartare, visto che il concerto consiste in un lunghissimo atto di accusa contro Vladimir Putin, uno che non è prudente provocare perché non ha grosse remore a far morire la gente.

Lo spettacolo

Il concept dell’Anti-War Tour ruota attorno alla ricostruzione della storia recente della Russia e a come abbia generato la band. Con un flusso continuo di immagini sulle quali è sovraimpressa in tempo reale la traduzione in italiano di quanto stanno cantando (declamando?, rappando?) le tre cantanti, ci viene spiegato che a partire dal 2011, dall’essere uno dei luoghi culturalmente più vivi del pianeta, la Russia è ripiombata in una delle sue modalità preferite: quella Orwelliana, con il suo presidente in modalità Grande Fratello. A raccontare gli eventi, le scelte sovversive del gruppo e le conseguenze pagate nei campi di rieducazione è Masha Alyokhina, attorniata da quattro componenti della line-up attuale.

Non era presenta Nadia Tolokonnikova, co-fondatrice, e questo suscita una possibile obiezione: abbiamo realmente visto le Pussy Riot, oppure uno spin-off, visto che l’esperienza sembrava conclusa? In ogni caso, l’impatto dello spettacolo è difficile da negare. Se non altro, non è la solita inutile piccola band londinese venuta a mietere adorazione tra gli anglofili italiani. Raramente in questi ultimi anni si è potuto vedere su un palco qualcuno determinato a parlare di qualcosa di grosso che sta succedendo nel mondo. Poi, che ai giovani interessi di più sapere quante Glock e quante Lamborghini si possano permettere i tanti buzzurri di quartiere che stiamo elevando a Dolenti Voci Del Disagio, è anche una nostra colpa. Certo, se qualche nostro artista si fosse degnato di presenziare alla serata, avrebbe potuto ricavarne qualche stimolo. Ma forse avevano da fare, dovevano provare delle cinture nuove.

Foto: Kimberley Rosso

La musica

La parte musicale è quasi tutta sulle spalle di Diana Burkot, che si occupa di tastiere, programmazione e batteria; interviene con degli assoli di sax Anton Ponomarev, vestito da donna. Ma la piattaforma su cui le tre vocalist (Alyokhina, Olga Borisova, Diana Burkot) inveiscono e accusano è decisamente elettronica. C’è qualcosa che ricorda lontanamente i RATM delle “battaglie” di Los Angeles o di Seattle, e vengono in mente alcune fasi dei Nine Inch Nails, e per certi versi anche i vecchi Residents. A tratti appaiono citazioni fulminee dal rock occidentale – stranamente spiazzante, per esempio, il loop delle prime due note (più rullata di batteria) di Instant Karma! di John Lennon che in una sezione dello show riappare ciclicamente come per resettare tutto da capo.

Sicuramente non c’è niente di cantabile: le vocalist, anche quando sono in sincrono (è arduo usare la parola “coro”), non sono interessate né alla melodia né alla necessità di convincere i nerd del rap con un qualche flow. In effetti, qualsiasi concessione alle regole è messa da parte. Persino quella di presentarsi come tutti le aspettano, cioè con i famosi passamontagna colorati – che appaiono solo verso la fine, per pochi minuti, per affermare continuità con la storia del gruppo.

La stregoneria

Una delle cose più interessanti è il modo in cui le Pussy Riot tengono il palco. Pur essendo nate guardando alla musica occidentale e al punk, che è una delle sue manifestazioni più spettacolari (fingendo di non esserlo, cosa che ne perpetua il longevo mito di ribellione), le artiste russe colpiscono soprattutto quando, immobili, rovesciano sul pubblico il loro rabbioso racconto. Quando invece si mettono a correre sul palco, o gettano acqua sugli spettatori in una specie di blando waterboarding, sembra di vedere un goffo momento di teatro-off del secolo scorso.

Ancora più stranianti sono i momenti in cui Masha e le sue orse (scusate, era difficile resistere) si mettono a ballare, in modo scoordinato e forse volutamente antitetico allo swag sexy delle movenze che gli americani ci insegnano da anni. Ed è la cosa che più le avvicina alla loro ambizione di essere le nuove streghe, in lotta contro il potere dei maschi – più volte rimarcato – e la Chiesa sua complice. Il loro femminismo non ha molte tracce di post-femminismo. Viene il sospetto che solo una band di donne potrebbe essere così arrabbiata con il regime di Putin, anche se un collega bene informato sulle cose russe ventila che proprio l’essere donne e in qualche caso anche madri ha indotto il regime a un po’ di (paternalistica?) indulgenza nei loro confronti. Ad ogni modo, verso la fine dello spettacolo viene fatto l’elenco di chi la pensa diversamente dal Presidente ed è per questo in carcere in qualche ameno Gulag: tanti maschi e tante femmine.

Foto: Kimberley Ross

La resistenza

Ma ce n’è anche per noi, gli occidentali che per tanti anni sono andati a braccetto con Putin e gli hanno venduto armi. L’esortazione a mettere in discussione il potere, le autorità ma anche il nostro tacito beneplacito al loro dominio è ripetuta più volte, e sfocia nella parte conclusiva, nella quale un brano – forse l’unica “canzone” in senso stretto – è dedicato al popolo ucraino. Dopo di che Alyokhina, nel salutare e ringraziare il pubblico, fa presente che parte del ricavato delle vendite del libro Riot Days e delle t-shirt verrà devoluto a un ospedale del Paese invaso, e invita gli spettatori a sostenerlo.

Dal pubblico arriva qualche Spasiba (a Milano ci sono parecchi ucraini), e la gente all’uscita crea una fila vista raramente quest’estate ai banchi del merchandising. Ma al di là degli applausi sicuramente convinti, fondamentalmente è stata questa la risposta dei presenti: più “civile” che passionale. E vista anche la scarsa eco ottenuta dalla presenza delle Pussy Riot in Italia, distratta da protagonisti e drammi di ben altro spessore (Ilary, Francesco, e su: si fa così???) sarebbe improprio definirla una serata incendiaria. Anche se nel suo piccolo, qualcosa ha pur acceso.

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