C’è un momento durante il concerto di Steven Wilson in cui tutto – il suono, la luce, le immagini, forse anche i pensieri del pubblico – sembra allinearsi in un unico flusso armonico. È quando inizia The Overview, la seconda delle due suite tratte dall’omonimo album. In quel momento l’intero Teatro degli Arcimboldi di Milano viene immerso in una sorta di spirale galattica proiettata sullo sfondo del palco. Gli spettatori smettono di essere tali e iniziano a pensarsi passeggeri di un’astronave.
Wilson ha costruito uno show che non è un semplice concerto, ma un’esperienza. Ed è raro vedere un pubblico così silenziosamente coinvolto (e, miracolo, senza telefonini in mano), ipnotizzato, assorto. Come accadeva con i leggendari live dei Pink Floyd (che, non a caso, in questo periodo sono andati incontro a un rinnovato successo grazie al Live at Pompeii proprio con la complicità di Steven): quando il rock smetteva di essere intrattenimento per diventare astrazione, visione, liturgia.
C’è sempre stato un fil rouge che attraversa tutta la musica di Steven Wilson: una tensione costante verso l’altrove. Non importa che si parli dei Porcupine Tree, delle sue incursioni soliste o della miriade di progetti paralleli: Wilson, da sempre, è alla ricerca di un varco. Un passaggio segreto che dalla forma canzone conduca a qualcosa di più vasto, profondo, misterioso. E questo tour è forse il suo tentativo più ambizioso di trasformare un concerto in un’esperienza totale, simile più a un rituale onirico che a un’esibizione live.
L’impianto scenico e sonoro è tra i più sofisticati. Le due suite del nuovo album accentuano le pulsazioni sintetiche, le esplosioni crimsoniane e le distorsioni che sembrano provenire da una discoteca su Marte. E poi le rarefazioni, i silenzi, la voce che diventa elemento atmosferico. Lo schermo alle spalle della band (che proietta il film che ha accompagnato l’uscita dell’ultimo album, diretto da Miles Skarin) è un organismo vivo in cui la musica prende corpo e si fa percezione visiva. È un flusso di immagini in cui si alternano l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo: un pianeta in rovina, galassie, neuroni, deserti, alieni, corpi che si disfano. Una lunga sequenza cosmica, una simulazione dell’overview effect, quella vertigine emotiva raccontata dagli astronauti che osservano la Terra dallo spazio e ne percepiscono per la prima volta la fragilità, l’unità, l’inutilità dei confini. È il cuore tematico del nuovo disco di Wilson: l’idea che l’arte debba aiutarci a guardare le cose da fuori, a prenderci la giusta distanza per recuperare uno sguardo più ampio, più vero, spirituale.
La band che accompagna l’inglese è chirurgicamente perfetta: un batterista che alterna virtuosismi, elettronica e tocchi jazz (Craig Blundell), un chitarrista che lavora più sulle tessiture sonore che sugli assoli (Randy McStine), un tastierista dal gusto sopraffino e dalle dita tentacolari (il rodato Adam Holzman), un bassista dotato di tecnica e presenza scenica (Nick Beggs, ex Kajagoogoo) e infine Wilson, che si muove tra chitarra e tastiere assumendo raramente il ruolo di protagonista assoluto. A volte mette da parte gli strumenti, lasciando che siano le immagini a parlare, mentre le luci si restringono su una stella che pulsa sullo sfondo e lui si gode ciò che ha creato.
Anche nella seconda parte, che propone brani solisti (da segnalare Pariah, con un muro di chitarre a dir poco impressionante, e il vertice finale di The Raven That Refused to Sing, forse la composizione più intensa e commovente di Steven) e un’incursione in territori Porcupine (la vecchia Dislocated Day, da The Sky Moves Sideways), ci sono momenti in cui il tempo sembra fermarsi. Il pubblico è immerso nella contemplazione, in un lento scivolare nell’abisso, in un’ipnosi lucida tra pop hard-psichedelico (Harmony Korine) e mini-opere che fondono Yes, Radiohead, Massive Attack, Tangerine Dream e Goblin (Luminol, Ancestral). La capacità di prendere ispirazioni disparate e fonderle in un tutt’uno che si fa sogno collettivo. La musica come esperienza mentale, spirituale, quasi terapeutica.
E questo, forse, è il punto più rilevante del concerto. In un’epoca dove tutto è rapido, accessibile, sintetico, Steven Wilson propone lentezza, complessità, oscurità, carne e sangue live. In un contesto musicale dominato dall’immediatezza, osa la lunga durata. E il pubblico lo premia. I teatri sono pieni (di un pubblico realmente intergenerazionale, tra gli 8 e gli 80 anni). I biglietti introvabili. Ma soprattutto: si percepisce tra le persone una fame autentica di esperienze che vadano oltre il mero intrattenimento. Perché la gente – oggi più che mai – ha bisogno di una musica che la porti lontano. Che le faccia vedere altro. Che la metta in contatto con qualcosa di più grande. Che sia sogno, fuga, contemplazione; che mostri apertura, che si dimentichi delle barriere. E Wilson, senza slogan, senza fronzoli, senza atteggiarsi a superstar, lo fa. Raggruppa fan del rock sinfonico, dell’elettronica, del metal, dell’indie, del grunge, dello shoegaze, del trip hop e del dream pop, e offre un’immersione in un suono realmente progressive, non (solo) prog. Con la cura di un artigiano, la lucidità di un filosofo, la grazia di un visionario.
Alla fine del concerto un lungo, lunghissimo applauso. E sguardi che non riescono a distogliersi dallo schermo ormai nero, in attesa di un’ultima immagine, di un ultimo suono. Ma non serve. Il viaggio è già avvenuto.